Medio Oriente, la grande chance per la guerra dei cinquantanni

Medio Oriente, la grande chance per la guerra dei cinquantanni I NUOVI SCENARI DI UNA CRISI SENZA FINE Medio Oriente, la grande chance per la guerra dei cinquantanni analisi Henry Kissinger ni Medio Oriente è euforico: si ■ delinca un'opportunità senza preM cedenti di un passo significativo verso la pace. L'ottimismo coincide con l'arrivo del primo ministro Ehud Barak, Ma, senza nulla togliere alla qualità del nuovo leader israeliano né al suo straordinario successo elettorale, resta il fatto che Barak rappresenta il culmine di un ciclo piuttosto che una rotta completamente nuova. Per 25 anni Israele ha dato terre in cambio di pace - qualche volta con riluttanza, sempre con ambivalenza - perché il do ut des per il suo sacrificio territoriale consisteva essenzialmente di promesse revocabili. Ciò non di meno il partito laburista di Golda Meir rinunciò a posizioni avanzate nel Sinai e sulle colline del Golan in cambio di una limitazione nelle forze militari che si confrontavano lungo le nuove linee di divisione. Nel '79 Menachem Begin, del Likud, accettò il confine tra Egitto e Israele stabilito nel '67 e sgamberò il Sinai, compresi gli insediamenti israeliani, per ottenere una pace formale con l'Egitto. Nel '93 i laboristi Robin e Shimon Peres conclusero gli accoixli di Oslo, che sono il nocciolo dell'attuale processo di pace con l'Olp. E Benjamin Netanyahu vinse la lunghissima opposizione del suo partito alla proposta terre-in-cambio-di-pace quando, negli accordi di Wye dello scorso ottobre, concesse, su insistenza americana, un altro 13 per cento di quanto restava del territorio della Cisgiordania in cambio di più forti garanzie di sicurezza - con questo accettando il principio della spartizione territoriale e della definitiva sovranità palestinese. Israele si è spostata lungo questa traiettoria perché ogni primo ministro - per quanto inizialmente diffidente - arrivava sempre alla conclusione che non c'erano alternative alle vittime dell'Intifada, alla perdita del Sud del Libano e all'impossibilità di una vittoria definitiva contro gli assai più numerosi vicini arabi. E se Israele è percepita come l'ostacolo alla pace, l'indispensabile relazione con l'America è a rischio. Di qui il commento di Rabin a un diplomatico che si congratulava con lui per la sua conversione a! processo di pace: «Sono impegnato, non convertito». I Paesi arabi sono passati attraverso un'evoluzione simile. Soltanto l'anno scorso - mezzo secolo dopo la nascita di Israele - ha eliminato dal suo statuto la clausola che chiede l'annientamento di Israele. Ma ora gli integralisti sono sempre più isolati. Egitto e Giordania hanno concluso formali trattati di pace. Non c'è più l'Unione Sovietica, la principale fornitrice di armi, e la Russia non è nella condizione di offrire convincente appoggio diplomatico e militare. 1 Paesi del Golfo hanno messo in chiaro che non faranno la guerra per la Cisgiordania. Il presidente della Siria Hafez Assad vuole minimizzare i disordini nella regione e cerca di preparare la successione del figlio. Ciò nonostante, il nuovo clima da solo non basta. I problemi che hanno prodotto l'impasse restano insoluti. Riguardano i confini, il futuro di Gerusalemme, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e il diritto dei profughi a ritornare a casa. I problemi sono molto complessi e la mediazione americana resta essenziale. La diplomazia americana ha mantenuto vivo il processo di pace nel corso di sei amministrazioni diverse e ha reso possibili tutti gli accordi fondamentali. Ma è anche vero che due iniziative embrionali - il viaggio di Sadat a Gerusalemme e i negoziati di Peres e Rabin poi sfociati negli accordi di Oslo - sono state avviate perché le parti in causa mediorientali volevano vanificare sforzi americani che percepivano come malaccorti. Sadat andò in Israele per anticipare una pressione americana a una nuova conferenza di Ginevra con la partecipazione sovietica. Rabin e Peres optarono per i negoziati di Oslo per evitare una proposta globa¬ le da parte della nuova amministrazione Clinton. Eppure, alla fine, entrambe queste iniziative, per andare a buon fine, hanno avuto bisogno di un'energica azione supplementare americana. La visita di Barak a Washington ha offerto l'opportunità di reimpostare la collaborazione diplomatica Usa-Israele. I negoziatori israeliani, per quanto apprezzino l'aiuto materiale americano, resistono istintivamente alla pressione americana per paura di stabilire un modello che gradualmente li spingerebbe oltre i limiti della sicurezza di Israele. E' per questo che i negoziatori israeliani provano l'eterna tentazione di rendere talmente sfibrante qualunque concessione da scoraggiare una escalation nelle richieste. I mediatori americani, per quanto convinti in linea teorica dell'amicizia americano-israeliana, rispondono troppo spesso con un misto di esasperazione e spossatezza. Queste tensioni intinseche sono state superate nelle prime fasi del processo di pace e, nel secondo mandato di Rabin come primo ministro, sono state sostanzialmente eliminate. Netanyahu, come ha sostenuto occasionalmente in conversazioni private, avrebbe perseguito la sua strategia di vigilanza come premessa per poter poi condurre, in un secondo mandato, il suo recalcitrante partito verso la pace finale. Ma ha talmente logorato i rapporti con i suoi interlocutori americani da far fallire il suo progetto. Quando le tensioni Usa-Israele diventano un braccio di ferro, il processo di pace è in pericolo. Perché Israele diventi veramente flessibile, occorre che Washington e Israele si accordino sulle dimensioni del ritiro israeliano. Non è una concessione a Israele. E' la pre condizione per convincere i palestinesi che possiamo fare ciò che promettiamo e rassicurare gli israeliani che non li spingeremo oltre ciò che essi considerano come sicurezza irrinunciabile. II ruolo dell'America, in questo processo di pace che si avvicina alla fase finale, sarà magari più sfumato ma non meno importante. E' assai improbabile che Barak sia meno consapevole delle necessità della sicurezza israeliana dei suoi predecessori. In ogni caso, Washington non può disegnare le linee finali né dirigere indifinitamente da dietro le quinte una serie di compromessi tattici. E i palestinesi avranno il diritto non solo ad avere uno Stato ma ai più alto livello di contiguità territoriale e a condizioni di vita compatibili con la loro dignità. Le scelte politiche del nuovo primo ministro di Israele rappresentano il culmine d'un processo durato un quarto di secolo piuttosto che una rotta completamente nuova Ma molti problemi sono insoluti e rimane fondamentale il ruolo ricoperto attraverso sei amministrazioni dalla diplomazia americana —> v e i e i o i e a o e o e Msoe foil atamdamrequestozianoesterapaRastocpristsasetetasufatebrinveWsunE Da sinistra: il presidente dell'Autorità Palestinese, Yasser Arafat, e l'ex premier israeliano Benyamin Netan/ahu Il nuovo primo ministro di Israele Ehud Barak sotto un ritratto di Yitzhak Rabin