LA SIGNORA NEL GARAGE

LA SIGNORA NEL GARAGE LA SIGNORA NEL GARAGE Penelope Fitzgerald, ottantatreenne scrittrice che ama l'Italia perché ha governi che non cambiano niente III I RVISTA Mii-.ulln ■> d'Andro LI EDITORE italiano di Penelope Fitzgerald voleva invitare la scrittrice a settembre per l'uscita del suo terzo romanzo tradotto, «L'inizio della primavera», e io che la sollecitavo a accettare ne ho ricevuto un bigliettino deliziosamente manoscritto a penna, tutte lettere staccate, che comincia «Certo che avrei adorato venire in Italia, come lo adorerebbe chiunque avesse la testa a posto, ma ahimè! sono troppo vecchia.» Sulla testa a posto non ci sono dubbi, ma dopo una visita alla signora, pur prossima all'ottantatreesimo compleanno, mi sentirei di smentire anche il resto. Penelope Fitzgerald abita nella modesta dependance, quasi un garage convertito, di una graziosa casetta sul colle di Highgate, nel verde e nel fresco anche se sotto molte rotte di aerei, avendo ceduto il grosso dell'abitazione alla figlia professoressa di neurobiologia («Anche da voi i professori universitari dedicano tanto tempo alla ricerca dei fondi? Qui non fanno quasi altro...»), e sembra completamente autonoma; in ogni caso, non la si direbbe affatto impossibilitata a viaggiare. Lo studiolo dove mi riceve è ovviamente tappezzato di libri («Ma la maggior parte è nella casa grande»), e sulla piccola scrivania c'è la macchina da scrivere, elettrica («Niente computer per me, ma mia figlia, di là, è attrezzatissimai|. La conversazione presenta solo una difficoltà, non ama parlare di sé, donde lunghe pause ih silenzio; come succedeva con Natalia Ginzburg, l'intervistatore si trova a sconfinare nell'autobiografia, seguito dall'intervistata con interesse e curiosità («Beati voi in Italia che non avete governi. Ah, li avete? Be', ma non fanno niente, vero? Cioè, non cambiano le cose. E' un gran bene.»). Penelope Fitzgerald passa gran parte del suo tempo leggendo, senza fretta, ora il secondo volume della colossale biografia di Coleridge («Amo le biografie, ne ho scritte, anche, il mio limite è che ho bisogno di un contatto "vivo" col biografato. Non avrei affrontato il mio libro su Edward Burne Jones se non avessi conosciuto una dama che se lo ricordava, avendo posato per lui a quattro anni»); recensisce libri, anche, ma non le piace («Detesto dir male di qualcosa che dopotutto è costato tempo e fatica»). E' nella giuria di III I Miid'A VISTA ln ■> dro premi letterari, al Booker ha sostenuto invano «Bestie» di Magnus Mills, il conducente di autobus rivelazione dell'anno scorso; deplora la distinzione, oggi di moda, fra scrittrici donne e scrittori uomini. Non ha lavori in cantiere, in ogni caso non ha niente da dire in proposito; tutti e nove i suoi romanzi del resto hanno avuto una lunga gestazione, che siano quasi sempre brevi non vuol dire nulla («Nel tagliarli impiego quasi il tempo che ci metto a scriverli, anche se l'operazione è molto più piacevole. Perché sono brevi? For¬ se è una conseguenza della delusione provala col primo. L'editore lo mutilò, e siccome era un giallo fondato su certi nessi, il risultato fu atroce. Ora metto le mani avanti. E poi, non voglio far perdere tempo a chi legge...») A monte del «Fiore azzurro» c'è l'assimilazione dei cinque tomi delle opere complete, con lettere e diari, di Novalis, usciti fra il 1960 e il 1988; «La libreria», l'altro breve romanzo noto al nostro pubblico, nacque da una esperienza autentica, «quando diedi una mano a una mia amica che aprì il primo negozio di libri a Southwold. A lei andò meglio che alla mia protagonista, ma i particolari sono veri, a partire dal poltergeist. Avete poltergeist in Italia? In Spagna so che non li hanno, non hanno nemmeno la parola. In Inghilterra ce ne sono dappertutto, quello li era particolarmente maligno. Bussava tutto il tempo - per un po' io pensai ai martelli dei calzolai della porta accanto - e qualche volta buttava per aria l'appartamento della mia amica, le apriva i rubinetti del bagno, eccetera. Lei non ci crede, vero?» Ci credo, e vorrei sapere com'è nato anche «L'inizio della primavera», che si svolge a Mosca poco prinui della rivoluzione, nel ménage di un inglese che ha una tipografia. «Mi interessava il periodo, in particolare la situazione di questi stranieri trapiantati in Russia, che la rivoluzione avrebbe espulso. Ne restano molte tracce, anche in un supplemento settimanale che per anni il «Times» dedicò alla Russia dove agivano tanti businessmen inglesi, e che mi sono letta in biblioteca. Ho conosciuto, anche, una reduce, una svizzera i cui genitori avevano mandato avanti, a Mosca, una serra che durò fino al '22, superando persino le crisi dei carburanti la un certo punto bruciando persino igiornali),.. 1 russi erano avidi di fiori, per le cerimonie ufficiali e altri usi. Volevo usare questa serra, ma non quadra va col resto della storia, cosi ho descritto una tipografia, attingendo anche a mie esperienze in questo campo.» Le chiedo se ha fatto molli altri lavori, ma si schermisce. Ha soprattutto insegnato, ma da precaria, in quanto la sua laurea a Oxford, dove si diplomò seguendo l'esempio della madre - In sua è una famiglia di letterati, alcuni eccentrici e famosi come lo zio sacerdote cattolico, oggetto di una biografia di Evelyn Waugh - non comportava l'abilitazione. «Studiai letteratura inglese, anche con C.S.Lewis e Tolkien, le cui fiabe peraltro non apprezzavamo - il fatto è che c'era la guerra di Spagna, e si parlava solo di politica». Naturalmente l'esperienza in una scuola per attori fanciulli servi poi anch'essa per un romanzo, «At Freddie's». «Li il problema era soprattutto di costringere i ragazzini a fare qualcosa. Erano (piasi tutti orfanelli sfruttati da adulti che speravano di piazzarli nel teatro o nella pubblicità, e vivevano nel sogno; le bambine aspettavano i tredici anni, quando il fisico si fosse formalo, per sapere se avrebbero potuto fare la ballerina anche da grande. Non è terribile?».