I khomeinisti di Botteghe Oscure di Filippo Ceccarelli
I khomeinisti di Botteghe Oscure I khomeinisti di Botteghe Oscure La rivoluzione abbagliò la sinistra italiana analisi N Filippo Ceccarelli O: sia pure dopo molte e anche subdolo ricerche su documenti scritti e tradizione orale, «compagno Khomeini» non risulta essere mai stato pronunciata. Cioè nessuno, in quel tumultuoso 1979, fu disposto ad affratellarsi pienamente e lessicalmente ali ayatollah con il barbone, a considerarlo appunto «un compagno». Ma non per questo si può concludere che la sinistra italiana fu tiepida con il regime che in momento stava nascendo a Teheran. Anzi, Per corti versi si può dire che a tal punto no condivise l'euforia rivoluzionaria da manifestare per il khomeinismo in erba una vera e propria sbandata di cui restano agli atti fantastiche suggestioni e febbrili sentimentalismi. Tipo diffondersi, come fece la pur sobria Rinascita, sullo «vibrazioni» che correvano tra il popolo dei mustafasin in lotta e il «mistico balcone» da cui parlava Khomeini nella città sacra di Qom. Al XV congresso del pei Pietro Ingrao tratteggiò un implicito ed illustre paragone fra Ho Ci Min (l'amatissimo «zio Ho» del popolo comunista) e il futuro, severissimo restauratore della teocrazia islamica. E sempre Rinascita, allora diretta (come oggi) da Adalberto Minacci, non esitò a titolare, a proposito della cacciata dello Scià, «Una rivoluzione contro il Capitalo», che era il titolo di un famoso fondo di Gramsci. Fu comunque uno sbandamento piuttosto generale, si può dire un'esaltazione febbrile che contagiò tutta la sinistra, aenza distinzioni tra vecchia s nuova. Il quotidiano Lotta continua aderì con mirat issi ino entusiasmo all'insurrezione, esaltandone l'aspetto al tempo stesso pacifista e lenini- sta e magnificando la lotta del «popolo della terra», migliaia e migliaia di disperati che vivevano dentro spaventose cave d'argilla. «Fu una rivoluzione non violenta - ricorda Carlo Panella, che passò sei mesi in Iran - come può farla un enorme partito di massa. All'improvviso una moltitudine di contadini poverissimi ebbe una prospettiva. Tutto sembra¬ va tornare». Anche il Manifesto la visse più o meno in questo modo, e Foucault e Liberation... Quasi nessuno colse i rischi della degenerazione religiosa in senso integralista, lo scatenamento dei preti, quella loro fervida determinazione a far fuori tutti i nemici. Tutto era oscurato dalla «rivoluzione», nel suo più mitico ed illusorio significato. «La classica rivoluzione nella quale il popolo si solleva, fa le barricate, i soldati si chiudono nelle caserme e rifiutano di essere impiegati contro il popolo di cui sentono di far parte» come annota nel suo diario, alla data del 12 febbraio '79, Altiero Spinelli, uno dei pochi a mantenere integra la lucidità. A un certo punto si arrivò a fiaragonare l'occupazione del'ambasciata americana alla prese della Bastiglia o del Palazzo d'Inverno; e in seguito a giustificare con improbabili motivazioni di tipo antropologico la lapidazione delle donne infedeli. A dare il senso dell'ebbrezza restano pochi versi di una canzone di Franco Hattia¬ to: «L'ayatollah Khomeini per molti è Santità/ abbocchi sempre all'amo...». La rivoluzione era dunque un'esca, una trappola, una mistificazione. In modo meno poetico: «Vi furono nella sinistra italiana moltissime illusioni - riconosce Pier Giovanni Donini, professore all'Istituto Universitario Orientale di Napoli e iranista tra i più accreditati -. La rivoluzione del 1979 sembrava prospettare un'inedita, ma già vagheggiata alleanza di progresso tra marxisti e fratelli musulmani. Non si pensava che questi ultimi potessero essere tutti, ma proprio tutti fanatici. E il fanatismo, allora, non era assimilabile ad una categoria politica...». Fu anche - particolare non secondario - una straordinaria epopea giornalistica. Se in Italia le città pullulavano di studenti iraniani tanto ragionevoli quanto ribelli, che sommerge¬ prava su dei bambini si beccò una fucilata dalla polizia. Non che questo giustifichi la succesiva sbandata filo-integralista, ma dagli articoli si capiva benissimo che, fallita ogni modernizzazione, il governo dello Scià non stava più in piedi, corrotto e delegittimato dalla stessa campagna del presidente americano Jimmy Carter sui diritti umani, Lo stesso fronte rivoluzionario, almeno all'inizio, pareva composito. Oltre all'opposizione religiosa, c'erano infatti i comunisti filovietici del Tudeh, alcuni gruppi marxisti, i liberal democratici di Bani Sadr (del quale, per la verità, già si diceva con una certa diffidenza che si andava a comprare i calzini di seta a Parigi) e gli eredi nazional-liberali, se si può dire, di quel Mossadeq con cui a suo tempo aveva trovato un'intesa Enrico Mattei. E anche questo contribuisce a spiegare, se non l'entusiasmo della sinistra e anche di un certo mondo cattolico-terzomondista per Khomeini, la freddezza con cui ì governanti democristiani e le correnti che «andavano a petro-dollari», come si diceva allora, accolsero la fuga di Reza Pahlevi. L'allora presidente del Consi- 51io Andreotti si limitò a liquiare lo Scià con un gelido ritratto, ricordandolo come «un ostentato e anche un po' discutibile damerino»; un signore che nel 1949, a Venezia, aveva chiesto al governo italiano una donna con cui passare la notte; o che fuggito a Roma dopo il colpo di Stato di Mossadeq «non trovò inopportuno recarsi la sera stessa al night». Giudizi quasi khomeinisti, seppure ragionevolmente condivisibili. Lotta continua aderì con entusiasmo alttnsurrezione esaltandone l'aspetto «al tempo stesso pacifista e leninista» vano partiti e giornali di opuscoli sulle torture del regime imperiale, da Teheran arrivavano ai principali quotidiani le infuocate corrispondenze di Igor Man, Bernardo Valli, Pietro Petrucci. E Giancesare Flesca, dell'Espresso, che assistendo da un terrazzo alla scena atroce di un cecchino che spa
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