Pirandello sotto il giogo dei commissari

Pirandello sotto il giogo dei commissari Pirandello sotto il giogo dei commissari Gli esami non finiscono mai: persino il Nobel dovette superare lo scoglio di una commissione per diventare professore al magistero femminile GLI esami • sarà meglio lo ricordino anche i ragazzi che si stanno buttando alle spalle le prove di maturità non finiscono mai. E se da un lato lo afferma il grande Eduardo De Filippo nel suo lavoro del 1973, perfino Luigi Pirandello - al quale il geniale figlio di Eduardo Scarpetta e Luisa De Filippo rende omaggio nella seconda metà degli Anni 30 trasponendo in napoletano creazioni come «Liolà» e il «Borrot.to a sonagli» ha dovuto sottoporsi al giogo di una commissione esaminatrice. Era il 19 ottobre del 1908 quando severi esaminatori si riuniscono a decidere circa la promozione a ordinario del professor Luigi Pirandello, straordinario di lingua e stilistica nel Reale Istituto superiore di magistero femminile di Roma. L'esaminando già in quegli anni non è affatto un signor nessuno. Pirandello ha già pubblicato «Il fu Mattia Pascal» accolto sia dai lettori della «Nuova Antologia» che dal pubblico più vasto con grandissimo interesso: solo che la sua situazione economica e familiare sta andando a rotoli e urge la sicurezza di uno stipendio fisso. La malattia della moglie e il disastro finanziario dell'impresa siciliana in cui erano stati investiti i capitali del padre e del suocero paiono essero, insomma, la molla che porta Pirandello davanti ai suoi esaminatori. I quali, come racconta nel suo brillante «Datario» Piero Cudini, tornano a riunirsi il 26 ottobre di quel 1908 per concordare unanimomerto «la promozione a ordinario del candidato. I membri scrive Cudini - sono tutti personalità insigni del mondo accademico. Pure fa un corto effetto pensare che un Pirandello dobba sottoporsi a questo tipo di giudizio. Ed e curioso andare a leggero lo relazioni dei commissari, in cui, al di là di giudizi comunque sostanzialmente positivi, non mancano riserve anche posanti». Uno dei commissari, ad esempio, scrive che Pirandello «avvertito, saprà guardarsi in avvenire dall'abuso, che v'è ora innegabilmente ne' suoi scritti, del neologismo non tanto nella formazione quanto nell'accezione dei vocaboli». E mi t&rò, che ha passato in rassegna quella che già allora è l'ampia produzione del futuro Nobel, aggiunge che, in quelle pagine, «non mancano qua e là i segni d'una cognizione non troppo sicura della lingua nostra, una tendenza che a noi pare eccessiva, non solo a creare neologismi, ma a piegare altresì vocaboli ben noti ad accezioni che non sono legittimate né dalla tradizione letteraria né dall'uso moderno». Infine l'anturevole dantista Michele Barbi accompagna il positivo giudizio della commissione su Pirandello con parole che sembrano prese, paro paro, dalle stereotipate valutazioni vergate sulle pa- §elle degli scolaretti della scuola all'obbligo: «Si possono desiderare prove maggiori di una conoscenza piena e sicura dell'uso dell'italiano antico e moderno». Attorno al tema degli esarai che non finiscono mai • anche per chi qualche posto nella vita del Paese in qualche modo ha finito col conquistarlo - qualche editore potrebbe certo proporre una lunga, spassosa & lagrimosa (a seconda degli umori) galleria di personaggi e di aneddoti. Lì potrebbero prendere posto ben incasellati secondo precise tipologie - buona parte degli stereotipi comportamentali che hanno retto per lungo tempo il nostro vivere collettivo: gli esami aridi e burocratici ai quali vengono sottoposti dai loro precettori i giovani Savoia durante il lungo stage che li prepara al mestiere di re, le smanie gramsciane davanti a prove che deve sostenere in totale solitudine e miserie, le razzie dei diciotto scritti su libretti universitari di giovanotti pronti a partire o appena rientrati da qualche fronte bellico nonché le geniali invettive di Busi alle prese con il temino che avrebbe dovuto sancire le abilità giornalistiche di uno scrittore di razza. E così via esaminando... Naturalmente una ricognizione di questo genere avrebbe senso se fuggisse velocemente dal soffocante ambito delle aule scolastiche o delle commissioni universitarie per approdare - attraverso un affresco assai più variopinto - a uffici e fabbriche, caserme e tribunali, studi tv e palcoscenici, cantieri e camere da letto. Luoghi dove come è noto - prendono posto esami assai più severi e veritieri di quelli che si fanno dentro i plessi scolastici. Il dover passare per il giogo di una selezione dove qualcuno scruta con sguardo più o meno attento dentro Te altrui presunte abilità, capacità, predisposizioni, decidendo alla fine se assegnare o meno un compito, un lavoro, un incarico, è sempre stato fonte di sofferenza e insicurezza, di notturne veglie e diurne lamentazioni per generazioni di italiani. Tanto che ha finito col fornire uno degli ingredienti principali del nostro carattere nazionale: sacrosantamente ribelle e masochisticamente passivo davanti ai riti selettivi e valutativi che scandiscono la vita. Spesso davanti a queste prove l'italiano ha reagito abbarbicandosi alla speranza del posto fisso, garantito e assicurato per tutta la vita. Un posto che, in realtà, ba rappresentato per lungo tempo un teporoso castello (almeno era visto così, qualunque fosse la sua reale rilevanza e la sua capacità di coinvolgimento e di gratificazione) all'interno del quale non è più consentito - vita naturai durante l'ingresso di qualsivoglia esaminatore anche se vessazioni e tristezze non mancavano di certo. Come dimostra V. Bersezio nel racconto delle vicende del suo Monsu Travet. In realtà ala ferrea tenaglia, dispiegata da un lato dagli esami che non fìiuscono mai e dall'altro dall'illusorio castello del posto fisso, si può fuggire: ma solo dal basso o dall'alto. Lo scappare dal basso è solo apparentemente un lusso: in realtà esige solo il banalissimo coraggio del dire no, dello scappare via lasciando - come sola traccia di sé - una scarna lettera di dimissioni. La fuga dall'alto esige maggior talento poiché consente di scansare esami e selezioni solo a patto di trasformarli in riti di affiliazione e di cooptazione. Se volete un maestro da seguire in proposito non dovete far altro che seguire l'esempio di Magnus Pym, uno degli indimenticabili personaggi di John Le Carré. «Fra tutte le arti dell'affiliazione di cui Pym si era impadronito il colloquio preliminare occupa il primo posto...» scive Le Carré ne «La spia perfetta». Stanno dunque, davanti a questo agente segreto infiltrato nella vita quotidiana, i suoi esaminatori: «Pym prendeva posto dinanzi a costoro, calmo, assennato, risoluto, modesto. Pym componeva i suoi lineamenti ora in questa, ora in quella espressione: mostrava ora riverenza, ora timore, zelo, appassionata sincerità o buon umore... Si mostrò piacevolmente sorpreso quando gli dissero che i suoi professori avevano grande stima di lui. Si schernì e si vantò con modestia. Separò gli increduli dai credenti e non si diede pace finché non li ebbe convertiti tutti quanti». A cosa? Ovvio, al club degli ammiratori di Magnus; Pym. L'uomo per il quale gli esami non devono esistere mai. . DA LEGGERE Eduardo De Filippo GII esami non finiscono mai Torino 1973 P. Cudini Il Datario Milano 1992 V. Bersezio Le miserie 'd Monsù Travet Torino 1905 1. Le Carré La spia perfetta Milano 1986 Luigi Pirandello (qui in compagnia di Marta Abba) si sottopose agli esami dell'insegnamento magistrate nel 1908

Luoghi citati: Milano, Roma, Savoia, Torino