La centralità del barbiere di Filippo Ceccarelli
La centralità del barbiere La centralità del barbiere Filippo Ceccarelli Eio vado dal barbiere... Ricorrenza di figure nella politica italiana, dove c'è sempre un barbiere da cui recarsi, platealmente, per manifestare i più vari stati dell'animo: avversione, disprezzo, gioia, simulazione e dissimulazione. Così, l'altro giorno, mentre il presidente del Consiglio stava parlando nell'aula di Montecitorio, Gianfranco Fini ha approfittato della circostanza per farsi dare una spuntatola, lì alla Camera. E' quindi ricomparso dopo un'oretta, fresco e improfumato, a discorso di D'Alema ormai concluso: «Non l'ho ascoltato - ha detto il presidente di An - tanto lo giudicavo un dibattito mutile. Adesso vado dai miei a farmi raccontare quello che ha detto». Forse gli avranno anche raccontato di quando - era il 1972 - per esprimere la più provocatoria estraneità rispetto a un governo di cui pure era stato appena nominato ministro, Carlo DonatCattin se ne andò dal barbiere invece che a giurare al Quirinale. E lo comunicò con la stessa malagrazia di Fini, ben consapevole che quel gesto parlava più di qualsiasi parola, se non altro perché metteva sullo stesso piano un rito solenne e un umile shampoo. Tra un barbiere e l'altro passano la bellezza di 27 anni. E tuttavia non evoca solo un'oggettiva continuità tra Prima e Seconda Repubblica, questa sprezzante evocazione di coiffeur. Appena ricevuto l'incarico, dove è andato D'Alema? Ma dal parrucchiere, che è anche un suo amico, dove si rilassa, parla della Roma e si fa togliere la pieghetta dal ciuffetto. E ancora: quando Prodi, neo presidente, dovette incontrare in segreto Di Pietro per offrirgli un ministero, che cosa fece dire per depistare i giornalisti? Che stava dal barbiere - e dagli. Con il che, anche approfittando della quantità crescente di atI tenzioni e strategie che i poliI tici riservano al loro aspetto, si potrebbe aprire una parentesi sul rapporto tra il Prodi e i propri capelli: la duplice smentita ai sospetti di tintura, Maurizio Costanzo che alla Sorbona - sul serio - accenna agli «shampoo episodici» dell'ex presidente, e così via. Mica solo Prodi comunque, se è per questo. Durante l'ultima campagna elettorale s'è visto Berlusconi entrare in un salone di Venezia per poi uscirne appagato dicendo una cosa che forse solo a lui poteva venire - come si dice in testa: «Ho chiesto alle ragazze di mandarmi tutti i capelli che tagliano, COSÌ li userò io». Mah. Cossiga, mesi prima, l'aveva crudelmente stuzzicato: «Credo che io sia più basso e più calvo di lui». D'altra parte si sa: i politici sono un po' strani. Occhetto, a un certo punto, chiedeva i capelli «alla Majakovskij»; De Michelis non se li voleva mai tagliare (e c'è pure un film con Sordi che ne fa l'imitazione: «E no che non me li taglio!»); Andreotti faceva venire il barbiere «a studio», all'alba, facendo accomodare i collaboratori in bagno, e il più fedele di loro «sul trono», che poi era il bidet. Tutto questo, però, finisce per oscurare la figura centrale del barbiere, da cui la politica si ritiene separala, quando non lo è. Come dimostra la storia dimenticata di Gianni Germanetto, organizzatore di una lega di barbieri nella Torino d'inizio secolo e poi figura di spicco del movimento comunista internazionale. Nel 1931, a Parigi, pubblicò «Le memorie di un barbiere» che tradotto in 23 lingue, tirò oltre un milione di copie. Sarebbe stato carino se avesse scorciato lui i capelli Fini. ■ili a
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