Agnelli racconta i cento anni Fiat di Marcello Sorgi

Agnelli racconta i cento anni Fiat TRA RICORDI DI FAMIGLIA E VITA VISSUTA IL PRESIDENTE D'ONORE RICOSTRUISCE LA STORIA DEL GRUPPO Agnelli racconta i cento anni Fiat «Avremo un ruolo importante anche nel nuovo secolo» intervista Marcello Sorgi AVVOCATO Agnelli, la Fìat che compie cento anni, quale contributo ha dato a un secolo di vita e di storia italiana? «Ha dato certamente un apporto alla crescita economica, sociale e civile del Paese, oltre che alla sua industrializzazione. Anche se cento anni comportano, inevitabilmente, molte cose: successi e insuccessi, primati e arretramenti, consensi e conflitti». C'è un'epoca che lei ricorda più volentieri di altre, che considera più importante? «La mia vita coincide per tre quarti con quella della Fiat. E il mio rapporto con la Fiat è per metà di memoria e metà di vissuto. La nascita del gruppo e i primi anni di crescita coincidono, nei miei ricordi, con i racconti di mio nonno e della Torino di fine secolo». La Torino non più capitale del Regno. «Appunto. Una città dotata di una forte borghesia, di una popolazione abituata alla disciplina, di una cultura tecnica di antiche radici, di un'università che dava ampio spazio alla ricerca scientifica. Eppure, in crisi di identità, alla ricerca di una via di uscita da una profonda depressione economica, e insomma di un futuro. Che trovò nell'industria e nell'automobile». Suo nonno non nacque industriale: lo diventò. «Mio nonno era proprietario terriero e ufficiale di cavalleria. Ma a un certo punto la vita militare cominciò a annoiarlo: la trovava ripetitiva. All'inizio del secolo in Italia c'erano già 61 costruttori di automobili. Non mancava l'entusiasmo; mancava il mercato. Giovanni Agnelli si propose di costruire il mercato, trapiantando dall'America di Henry Ford in Europa il sistema della produzione di massa. La storia della Fiat è soprattutto storia di questo progetto che punta a espandere produzione e mercato dei mezzi di trasporto: prima l'auto, e poi i veicoli industriali, gli. aerei, i treni, i motori marini, i trattori agricoli». Ma l'Italia d'inizio secolo era pronta alla crescita di un moderno sistema capitalistico? E quali furono le maggiori difficoltà? «Emerse subilo un problema di adattamento di quel genere di produzione alle condizioni specifiche del nostro continente. Un problema culturale: in America, l'auto, il movimento, il dinamismo erano considerati fattori di progresso. In Europa e in Italia una simile cultura doveva ancora diffondersi. Inoltre un disegno come questo aveva bisogno di uomini, mezzi, investimenti, che solo una grande impresa poteva assicurare». Quanto tempo impiegò la Fiat a diventare una grande impresa? «Quindici anni, per superare la soglia dei quattromila dipendenti (un traguardo che altre grandi imprese come l'Ansaldo raggiunsero più tardi). Ma i primi investimenti importanti furono decisi attorno al 1911-12. Ricordo, nei racconti, le preoccupazioni di mia nonna, che per trattenere mio nonno, senza riuscirci, minacciò perfino la separazione». Nel bel mezzo dello sviluppo, però, arriva il fascismo. E' Sopra: Umberto A«Mio fratello ha concon me gli anni più a partire dal '68 fino a metà degli Anni Settanta» vero che all'inizio, per la Fiat, è un periodo difficile? «E' evidente. Il fascismo nasce anzitutto dalle campagne. Solo più tardi arriva anche alle classi industriali del Nord, con un impulso più forte degli agrari emiliani e degli'industriali lombardi; gli imprenditori piemontesi sono quelli più tiepidi. Poi, per un uomo come mio nonno, liberale ed europeista, le angustie del regime, l'autarchia, la tutela protezionistica rappresentavano un ostacolo alle ambizioni internazionali della Fiat. Inoltre, già pri- ma del fascismo, nel settembre 1920, al momento delle grandi occupazioni delle fabbriche, mio nonno a un certo punto si era convinto che il Paese fosse sull'orlo della rivoluzione». Ed è li che si colloca un curioso episodio riscoperto dal professor Berta. «A quel punto, mio nonno pensò di cedere alla parte riformista della sinistra e di proporre all'Alleanza cooperativa di Torino di rilevare la fabbrica. La proposta ni fatta a Giuseppe Romita, il socialista che sarebbe diventato ministro dell'Interno con la Repubblica. Anchi- Gramsci la giudicò interessante e la citò nei "Quaderni del carcere". Ma alla fino fu respinta dalla stessa sinistra». Lo storico Castronovo sostiene che suo nonno ebbe con il fascismo una sorta di convivenza forzata; e che anche Mussolini, sotto sotto, diffidava della Fiat. «Mussolini considerava con fastidio la forza economica della Fiat. Eni un atteggiamento e, in qualche modo, una forma di inquietudine, di un uomo come quelio, amante delle grandi adunate e sempre eccitato di fronte alle masse. Edda Ciano, sua figlia, una volta me lo spiegò cosi: 'Il Duce dietro suo nonno vede sempre, o immagina di vedere, le migliaia di operai incontrati nella sua visita a Torino. E questo un po' lo preoccupa". Mussolini diceva che gli operai della Fiat erano come i fichi: neri fuori, rossi dentro. Cinquantamila lavoratori, concentrati in pochi stabilimenti, per Mussolini rappresentavano una potenziale forza eversiva». Tutto ciò non impedì la nomina di suo nonno a senatore'del Regno nel 1923, con le conseguenze che si aprirono, per lui e Valletta, alla fine del fascismo. «Sì, con il ritorno della democrazia e l'avvento della Repubblica, mio nonno e Valletta furono accusati di compromissione con il regime e sottoposti a procedimento di epurazione. Mio nonno, che aveva resistito dieci anni, fino al 1932, prima di prendere lo tessera fascista, mori il giorno della fine del processo, che io vide prosciolto. Valletta fu chiamato a rispondere di presunte collaborazioni con i nazisti; venne assolto anche lui perché dimostrò di essersi impegnato contro i rastrellamenti degli ebrei e di aver dato aiuti alla Resistenza. Alla fine della guerra, in pratica, avendo fatto il soldato con la Quinta Armata nel gruppo Legnano, ero l'unico, anche per ragioni d'età, a non aver avuto rapporti con il regime». Ma lei, avvocato, non aveva avuto anche un'educazione antifascista? «Avevo studiato al liceo D'Azeglio, frequentato dalla gioventù laica di Torino, noto anche per essere stato la scuola di intellettuali azionisti come Bobbio e Galante Garrone. E avevo respirato un clima moderno, condividendo le aspirazioni di novità e di progresso di una famiglia di imprenditori come la mia. Basti pensare che a mio cugino Giovanni Nasi, nato prima di me, e prima del fascismo, ero stato dato come secondo nome Wilson, in omaggio al presidente americano che fece la Società delle Nazioni. Nasi ebbe vicino per la sua formazione il grande musicologo Massimo Mila; e io Franco Antonicelli, un intellettuale mollo raffinato. Ricordo bene, nell'anno in cui preparavo la maturità, che Antonicelli, all'improvviso, spari. Dopo qualche giorno di assenza mi dissero che stava poco bene. Invece era stato arrestato come antifascista. In sostanza il fascismo in casa nostra era apparso carico di aspirazioni invadenti, ombre di statalizzazione della Fiat e di invìi in fabbrica di commissari del governo». Superato il momento dell'epurazione, Valletta fa una chiara scelta di campo. «E' vero, nel '48, e anche dopo, Valletta sta dalla parte di De Gaspori e Sceiba, contro il fronte popolare». Come arrivò Valletta alla Fiat? «Mio nonno lo conobbe in tribunale, a un processo, come consulente di un'impresa avversaria, la Cbiribiri. Il professor Valletta era docente di amministrazione aziendale, quel che oggi si direbbe un supercommercialista. Entrò in azienda nel '21, a metà degli Anni Trenta era già il più stretto collaboratore di mio nonno. Lo sua grande stagione cominciò nel dopoguerra e durò fino al '66. Il suo merito più importante fu di aver ricostruito, e fatto crescere molto, oltre i confini nazionali, la Fiat». Era un capo assoluto? «Sì, abbastanza. Aveva un senso rigido della gerarchia e uno forte tendenza al segreto. Per esempio, ci teneva a conoscere, solo lui, (manto veniva a cosUire ulla Fiat una "Cinquecento": lo teneva scritto a mano su un foglietto, ripiegato in una tasca dei pantaloni. 1 \itti i giorni andava a controllare di persona i conti, affidati a una serie di ragioniere, signorine, che lavoravano chiuse in un salone come monache di clausura. Alla fine dell'anno, riuniva i trenta più importanti direttori del gruppo c faceva un discorso, più o meno sempre lo stesso: viva la Fiat, dobbiamo andare avanti, non fermiamoci mai». Ne vien fuori un personaggio, un uomo d'altri tempi. «Tutt'altro. Valletta è stalo un dirigente industriale abile.e tenace, che ha saputo pensare in grande. Io gli ho voluto molto bene, e lui a me. Quando lasciò, aveva 82 anni: pensi lei, mi suggerì, a mettere limiti d'età per quelli clic verranno dopo. Infatti toccò a.me avviare un primo ricambio jenerazionnle, l'uscita di uomininmportanti, ma anziani. Ricordo ancora le critiche di Cesare Merzagora, allora presidente del Senato. Mi disse: manda via quelli che hanno fatto grande la Fiat!». Siamo arrivati al 1966: per la Fiat, comincia un'altra stagione. «E parte una grande sarabanda. Il '68, l'autunno caldo, la forte contrapposizione con il sindacato, il terrorismo che comincia ad affacciarsi. Valletta era convinto di aver lasciato la Fiat in una posizione inattaccabile, invece, poco dopo, la situazione era cambiata. Mio fratello Umberto condivise con me questi anni duri, o partire dal '68, fino a metà degli Anni Settanta, quando accettò l'invito della De a candidarsi al Senato. Si cercava di fare il possibile, ma giorno dopo giorno, tutto sembrava più difficile. E a un certo punto, fu chiaro che per salvare l'azienda ci volevano decisioni dolorose: bisognava ristrutturare, licenziare, tagliare. Decisioni come queste, ci spiegò Enrico Cuccia, non possono essere prese da chi si chiama Agnelli Fu in quel momento che nel vertice della Fiat entrò Cesare Romiti». Il procosso di ristrutturazione non fu facile, e neppure tanto rapido. «All'inizio In scelta una linea di ricomposizione con i sindacati che io stesso condivisi, come presidente della Confindustria. Ma dopo l'accordo firmato con Lama sul punto unico di contingenza, l'inflazione saliva, la situazione economica, nel complesso, conti¬ nuava a peggiorare, la minaccia terroristica, a Torino e in fabbrica, s'era fatta più forte: ricordo l'assassinio del dirigente Fiat Carlo Gbiglieno e del vicedirettore della "Stampa" Carlo Casalegno. Era duro accorgersi che i terroristi pensavano di andare fino in fondo». E' la vigilia della marcia dei quarantamila. «Voglio dire prima che Romiti condusse la Fiat in quegli anni in modo ammirevole. Poi, di fronte alla decisione inevitabile dei licenziamenti, in seguito trasfor- mali in cassa integrazione, la reazione immediata iti il blocco degli stabilimenti. Una scelta inaccettabile, che metteva in discussione la gestione dell'azienda e rendeva indi'.pensabile una Svolta. La svolta, per la Fiat, per l'industrio italiana e in definitiva per la vita del Paese, fu la marcia dei quarantamila». E' vero che le pressioni, oltre che dal sindacato e dal pei, venivano anche dal governo? Romiti ha raccontato a Giampaolo l'ansa, in un suo libro, un colloquio tesissimo con "allora ministro socialista Formica. «Anch'io ricordo una conversazione mollo preoccupata con il ministro dell'interno Rognoni. Il timore era che, nel clima di tensione, si stabilisse un collegamento tra studenti e operai, fabbrica e scuola. "Se mi attaccano lo prefettura, clie faccio?", chiedeva Rognoni. Rispondergli non era semplice». Alla fine decideste di tenero duro. «Sì, subimmo molte pressioni, sia io e mio fratello, che Romiti. Ma Romiti fu una roccia e presso di noi trovò copertura». Si ricorda di Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat? «Mi ricordo Berlinguer e altri dirigenti torinesi del pei davanti ai cancelli di Mirafiori. Dal loro punto di visto, era logico. Ma ci rimasero poco, e ho anche la sensazione che Berlinguer andò perché come segretario comunista non poteva farne a meno». Avvocato Agnelli, facciamo un salto in avanti, fino ad oggi. I Novanta sono gli anni della globalizzazione, delle privatizzazioni nate sullo ceneri della Prima Repubblica, della contestazione del capitalismo familiare, delle grandi scalate come quella clic ha portato la Telecom in mano a Colaninno. E' più complicato, o meno, per la Fiat, vivere m quest'epoca? «Le rispondo così: lo scenario economico mondiale impone oggi alle aziende di avere una presenza globale sui mereiai, e noi ci siamo mossi da tempo in tale direzione; prima nell'area mediterranea, in Polonia, in Sud America, Brasile in particolare, e in Argentina. In aggiunta a ciò. ora ci stiamo muovendo anche in altre atee del mondo, come la Cina, dove oltre all'lveco siamo presenti ora con l'auto, in India, in Turchia, e siamo tornati in Russia, dove però dobbiamo fare i conti con la crisi economica che perdura, Insomma la Fiat è presente in tutti i continenti, fattura in olire 180 Paesi, in 60 dei quuli è stabilmente presente con lo proprie strutture, e in molti mercati occupa posizioni di leadership». Queste sono le presenze e i busùiess automobilistici. E gli altri settori? «Oggi, come le dicevo, bisogna essere globali e occupare posizioni di leadership in tutte le attività di business, raggiungendo l'eccellenza nei vari comparti. Si inquadrano in questo strategia di rafforzamento le recenti acquisizioni delle americane Pico e Case nei settori dell'automazione industriale e delle inocchine per l'agricoltura. Cosi come, per alnii verso, ablu. imo dismesso attività che non riteniamo funzionali al nostro core business». E per l'automobile si prevedono altri accordi? «Per l'automobile lo scenario è più complesso. Noi, come le accennavo, stiamo portando avanti una politica di rafforzamento ih tutte le aree a maggior potenzialità di sviluppo in aggiunta alle "tradizionali" presenze nell'Est europeo e in Sud America. Rafforzamento fatto anche di accordi, come l'inteso di questi giorni con Mitsubishi per la produzione di un veicolo a quattro mote motrici. E poi, come le ho dello, Fiat può anche andare avanti da sola, tua nel caso si creasse l'opportunità di un'alleanza avremmo una capacità negoziale sicuramente maggioro». Lo avevo chiesto una valutazione anche sul caso Telecom. «Non vorrei più pariamo». Rosta un'ultima domanda, avvocato: tra cento anni, come vorrebbe che fosse ricordata la Fiat? «Come un grande concentrato di risorse umane, manageriali, tecnologiche, che hanno contribuito a tenore alto il nome dell'Italia all'estero e il nostro Paese nel nucleo dello sviluppo mondiale. Questo ò insieme un augurio c una convinzione: perché la Fiat, affidata alle solide moni del presidente Fresco, deH'amministratorc delegato Cantarella e di un groppo dirigente di grande professionalità, he le carte in regola per svolgere un ruolo importante anche nel nuovo secolo». enito Mussolini erava con fastidio economica Fiat: avoratori ntavano per lui una e forza eversiva" Dalla fondazione a oggi, passando per il rapporto difficile col fascismo E poi, il dopoguerra gli anni del boom l'autunno caldo il terrorismo la marcia dei 40 mila fino all'era della globalizzazione «Abbiamo dato un apporto alla crescita economica, sociale e civile del Paese oltre che alla sua industrializzazione contribuendo a tenere alto il nome dell'Italia all'estero e il nostro Paese nel nucleo dello sviluppo mondiale» Sopra: Umberto Agnelli «Mio fratello ha condiviso con me gli anni più duri a partire dal '68 fino a metà degli Anni Settanta» Sono: Giovanni Agnelli fondatore della Fiat «All'inizio del secolo non mancava l'entusiasmo ma il mercato; mio nonno si propose di costruirlo» Sopra: Vittorio Valletta «La sua grande stagione cominciò nel dopoguerra e durò fino al '66 Il suo merito fu di aver fatto crescere la Fiat oltre i confini» Sono: Cesare Romiti «Prima della marcia dei 40 mila sia io e mio fratello, che Romiti subimmo molte pressioni; Romiti fu una roccia e da noi trovò copertura» Sopra: Paolo Fresco e Paolo Cantarella «Con loro la Fiat ha le carte in regola per svolgere un ruolo Importante anche nel nuovo secolo» Sopra: Enrico Berlinguer "Me lo ricordo davanti ai cancelli di Mtrafion Ma ho la sensazione che ci andò perché non poteva farne a meno- Sotto: Benito Mussolini «Considerava con fastidio la forza economica Fiat: 50 mila lavoratori rappresentavano per lui una potenziale forza eversiva"