Torino, la Sinistra cieca di Alberto Papuzzi

Torino, la Sinistra cieca Nell'ultimo volume della «Storia» Einaudi il rovesciamento della tradizionale diagnosi sulla crisi Torino, la Sinistra cieca Non capì il cambiamento degli Anni 70-80 Alberto Papuzzi wl N una grande città induI striale protagonista del miI racolo economico, laboratoI rio di sperimentazione di i modelli sociali (il welfare aziendale), di moli politici (l'intellettuale militante), di alternative culturali (i preti operai), di sfide generazionali (la contestazione studentesca), e cittadella di un sapere che da Pavese a Calvino, dall'Arte Povera alla fabbrica integrata, mette la cultura in rapporto con la produzione e ne rivendica il primato nei confronti della politica, l'opinione pubblica progressista e la classe dirigente di sinistra si mostrano così coerenti con la tradizione politica di appartenenza e così preoccupati di difendere l'identità storica della città, da non cogliere il senso, fra la seconda metà degli Anni Settanta e la prima metà degli Anni Ottanta, di una svolta decisiva, in cui tutto sta cambiando, dalle prospettive economiche e dalle contraddizioni dello sviluppo alle aspettative dei nuovi ceti. Perciò la «Detroit italiana» si è affacciata, quindici anni fa, sull'orlo del declino. Per lo spirito di conservazione della parte politica che avrebbe dovuto essere innovatrice. Questo e il punto chiave del nono e ultimo volume della Storia di Torino pubblicata da Einaudi: Gli anni della Repubblica, a cura di Nicola Tranfaglia, in libreria dalla prossima settimana. E' una tesi forte, esplicitata dal curatore nel capitolo introduttivo «L'incerto destino della capitale del miracolo». Professore di Storia contemporanea a Torino, intellettuale impegnato col pei e nel pds, Tranfaglia ricorda la popolarità del sindaco Diego Novelli, per nove anni a capo della città, capace di tessere un dialogo con la gente grazie alla conoscenza di luoghi e perenne nonché alla assidua presenza nei quartieri. Ma Umberto Agnelli accusò Novelli «di inseguire un modello di città operaia legato al passato». Aveva ragione? «Non c'è dubbio - scrive Tranfaglia - sul fatto che in quegli anni probabilmente la Giunta, come l'opinione pubblica della città, non percepì con sufficiente chiarezza la svolta a cui era arrivata l'ex capitale e la necessità di immaginare un destino nuovo e diverso da quello che aveva portato Torino, nel Novecento, a costituire il motore della industrializzazione italiana». Si tratta di una interpretazione che rovescia il quadro disegnato nelle ricostruzioni degli studiosi di sinistra, secondo le quali la crisi di Torino tra la fine degli Anni Settanta e l'inizio degli Anni Ottanta rispecchiava in realtà le incertezze strategiche e i problemi di mercato della grande azienda attorno alla quale era cresciuta la company town, la «città-fabbrica». La tesi di Tranfaglia c il punto d'arrivo di un articolato percorso nella storia di Torino dal dopoguerra a oggi, che occupa gli altri venti capitoli del volume. Questo itinerario storiografico si sviluppa principalmente tra due grandi sponde: da una parte il peso economico e culturale della più importante concentrazione industriale nel nostro paese, con uno sguardo particolare sulla Fiat di Valletta, sulle relazioni sindacali, sulla cultura d'impresa, sull'autunno caldo e sulla sconfitta operaia emblematicamente rappresentata dalla marcia dei quarantamila; dall'altra il contributo di culture che si possono considerare eccentriche ma che hanno concorso a stabilire una nuova identità della città: mondo dell'immigrazione, rinnovamento fra i cattolici, minoranze evangeliche, presenza degli ebrei e movimento studentesco. Tra queste due grandi sponde scorre il fiume delle attività istituzionali e delle scelte politiche, nelle pagine dedicate alla classe dirigente, al ruolo degli intellettuali, alla politica urbanistica, ai giornali, al Politecnico, a settori specifici della produzione di cultura latti, cinema, musica e teatro) e all'istruzione di massa. Questa struttura riprende l'impostazione della fortunata Storia d'Italia einaudiana, allora così innovativa da essere considerata trasgressiva, in cui ambiti storiografici tradizionali come quelli della storia politica o della storia economica s'intrecciano con studi di storia sociale e di storia materiale. E' in questa chiave che la Stona di Torino introduce nell'immagine tradizionale della città, come eventi così importanti da definirne il carattere, aspetti finora tenuti ai margini, come l'apporto della cultura ebraica. Alla soglia degli Anni Ottanta, l'orizzonte è quello di una città carica di primati: solo a Torino è stato così acuto il conflitto tra cultura d'impresa e concezione operaistica, solo a Torino il fenomeno dell'immigrazione ha avuto un impatto così violento, solo qui la gerarchia cattolica si è misurata così audacemente con le contraddizioni dello sviluppo industriale, solo la comunità ebraica torinese possiede memorie cosi divise tra adesione al fascismo e partecipazione alla resistenza. Questa suggestiva immagine della città finisce per fare velo ai cambiamenti che avvengono in profondità. La classe politica chiamata a guidare i destini di Torino dopo il successo del Pei nel 1075, sebbene si prodighi per la riorganizzazione territoriale dei servizi e per la valorizzazione dei quartieri periferici, appare prigioniera dello schema illuministico dei due modelli, che hanno per protagonisti, dentro e fuori la fabbrica, o l'organizzazione operaia o l'impresa e i suoi managers. In realtà il modello operaista era una costruzione ideologica. Per (pianto fra i comunisti torinesi si fosse rivendicata la capacità, fin dal dopoguerra, di progettare un nuovo ordine industriale (simboleggiato nella leggendaria vetluret ta, anticipazione della politica delle utilitarie), la coscienza di classe, scrive Tranfaglia, «non era in grado di proporre all'azienda un prò getto produttivo che potesse condurre, almeno in tempi altrettanto brevi, alla produzione di massa». Questo deficit operaista resta una spina nel fianco quando la sinistra viene chiamata a governare la città. Inoltre lo schema impedisce di cogliere tutta la portata dei fenomeni che andranno sotto il nome di «uscita dal fordismo», I celi operai si stavano riducendo, la società metropolitana mutava composizione, nuove ligure professionali introducevano nuove mentalità. Naturalmente il volume mette in evidenza le enormi difficoltà create dalle azioni dei gruppi terroristici. Ma denuncia anche la sordità a segnali come il rifiuto nel 1979 della maggioranza delle maestranze Fiat a sostenere una battaglia sindacale e politica in difesa di sessantun operai accusati di violenze in fabbrica. Perciò la marcia dei quarantamila segnerà, in un grigia Torino dell'autunno 1980, l'apogeo e il collasso della mitica identità della «città-fabbrica». Le elezioni regionali del 1975 commentate in una sezione torinese del pei. A sinistra Diego Novelli nel giorno della sua elezione a sindaco di Torino