Una pièce di fine regno a Belgrado di Luigi La Spina

Una pièce di fine regno a Belgrado VIAGGIO NEL DOPOGUERRA DEL PAESE DI MILOSEVIC Una pièce di fine regno a Belgrado Nel teatro di Ristic, il «regista del regime» reportage Luigi La Spina inviato a BELGRADO IL vecchio zuccherificio è I proprio davanti al parco Icon il lago artificiale sulla Sava, ma solo il tempo è responsabile dei vetri sfondati, delle mura sbrecciate, dei tetti cadenti. Le bombe occidentali l'hanno risparmiato e hanno fatto bene perché, in realtà, è un teatro, anzi il teatro più incredibile dei Balcani. Certo, fossero state più intelligenti avrebbero saputo che il suo padre-padrone è l'altrettanto più incredibile presidente di un partito in Europa, il partito serbo Jul, quello che ha come ninfa egeria la moglie di Milosevic. Sì, perché LjubiSa Ristic è un regista, il più famoso nella ex Jugoslavia e forse davvero uno dei più bravi registi teatrali contemporanei, ma è anche il presidente dell'ala sinistra del regime, la Jul, cioè il Partito della sinistra jugoslava unita. Il nome è già molto indicativo della sua ideologia, ma dietro il nome e il programma si cela il partito della nomenclatura e degli affari, soprattutto il più grande centro di potere economico-finanziario della Serbia. E di soldi Ristic deve averne a disposizione davvero tanti se, con tutte le fabbriche e i palazzi da ricostruire nel Paese, si può permettere di realizzare uno dei più straordinari cantieri artistici europei. Un grandioso progetto di trasformazione architettonica che sta mutando una vecchia fabbrica in un complesso laboratorio fatto di studi per la danza, il teatro, la musica, classica e moderna, completo di ristoranti stranieri, compresa naturalmente la cucina italiana. Il tutto in una prospettiva di apertura al mondo, testimoniata persino da colonne in bronzo che riprendono sculture azteche, greche, assirobabilonesi, egiziane. La febbre di globalizzazione, come si direbbe adesso, supera spesso, si sa, ogni frontiera del buongusto, anche per un artista. Stasera in questa fabbricateatro è in programma una tragedia contemporanea importante, una delle rappresentazioni simbolo di questo teatro di Ristic. E' stata presentata la prima volta nell'aprile 1996 e si richiama a una delle scene più terribili nella fosca storia della nuova guerra dei Balcani alla fine del secolo, il massacro sul mercato di Sarajevo. Un'immagine che ha sconvolto, attraverso le crude scene tra- smesse in tivù, la coscienza del mondo intero. Un episodio che forse è stato determinante perché l'Occidente si svegliasse dal suo torbido egoismo e decidesse d'intervenire nel nuovo macello, nei pressi del cuore dell'Europa. Il dramma s'intitola «Le storie di Sarajevo» e nel programma che viene distribuito agli spettatori si fa capire cosa stasera avverrà dentro questo pezzo di fabbrica: «Queste sono le storie degli angeli di Sarajevo, gente comune che moriva sognando una vita più semplice, gente comune che ha capito come l'uomo avrebbe potuto essere davvero meglio uomo in guerra piuttosto che in pace. Queste sono le storie nelle quali non c'è il sangue, orrore, non c'è niente di quello che una guerra comporta. Queste sono storie di uomini che hanno tentato di esserlo nel migliore senso della parola». La presentazione, in realtà, è un po' bugiarda perché se è vero che sulla scena non c'è sangue, l'orrore della guerra c'è tutto e la potenza della suggestione è impressionante. Il dramma, se pur con qualche ingenuità, è bellissimo, recitato splendidamente, e se a qualcuno venisse in mente di portarlo in Italia non solo avrebbe un grande successo, ma farebbe capire al pubblico italiano tante cose che mesi di giornalismo televisivo non hanno fatto capire. L'emozione, in molti casi, è più illuminante della parola. Alla fine del dramma spunta l'eroe serbo, l'attentatore di Sarajevo del principeerede Ferdinando, Gavrilo Princip. Con le catene al collo e la benda sugli occhi, ripete le frasi scritte sul muro della sua prigione prima di morire: «Vorrei aver vissuto anche altre vite, vorrei essere stato un marinaio su una piccola nave per la Brasilia, vorrei essere stato un saggio sulle montagne dell'Himalaya, il proprietario di un bar del porto dove la mattina mi avrebbero svegliato le sirene delle navi e il sole sopra l'acqua. Vorrei che in questo momento stesse nascendo mio figlio». Gli spettatori, tra cui molti bambini, lasciano la sala, anzi la fabbrica, perché la rappresentazione si svolge, con un effetto ancor più coinvolgente, tra mucchi di segatura, pezzi di pietra cadente, macchinari arrugginiti e fra un terribile odore di legno marcio. Appena entrati nel bar modernissimo che fa da ingresso alla fabbrica-teatro, ci accoglie proprio lui, Ljubisa Ristic, compiaciuto dei nostri complimenti per lo spettacolo, giustamente vanitoso come lo sono tutti gli artisti. O come tutti i politici, fa lo stesso. L'abbigliamento del presidente della Jul è curioso: camicia alla foggia russa, bianca con enormi bottoni d'ottone, pantaloni neri e ai piedi solo un paio di ciabattine da bagno biancoazzurre, come si vedono, o si vedevano, sulla spiaggia di Rimini. L'arte supera i confini, anche quelli dell'iniziale imbarazzo. Ristic parla dei grandi registi teatrali europei, da Barba a Kantor, e ricorda gli italiani Strehler, Ronconi e Carmelo Bene. I giudizi, non banali, sono taglienti e spregiudicati. Le sue preferenze, pur riconoscendo la grandezza artistica dei primi due, vanno al terzo, a Carmelo Bene, di cui evidentemente imita istrionismi e provocazioni. Presidente, non crede di essere un regista di regime, di fare teatro politico? «Sì, all'inizio gli altri mi accusavano di fare teatro politico perché loro si consideravano artisti e basta. Facevo, in realtà, teatro indipendente, tant'è vero che i miei spettacoli furono banditi da Belgrado e dovetti andare in Croazia, Slovenia e all'estero. Ora da dieci anni non andiamo fuori dalla Serbia. L'ultima volta ci bloccò un telegramma del vostro ex ministro De Michelis dicendo che gli artisti serbi non potevano partecipare a un festival in Veneto. Non capisco perché: nella mia compagnia ci sono solo due o tre serbi. Gli altri sono croati, albanesi, sloveni, bosniaci». Ma come fa a definirsi indipendente, proprio lei che ò il presidente di un partito politico, la Jul, sostenitore del governo Milosevic? «Guardi, a 21 anni, nel 1971, sono uscito dal partito comunista perché ero e sono rimasto di sinistra e non sono un nazionalista. Non ho fatto la conversione che hanno fatto i Solana e i Cohn-Bendit, io. Il teatro è sempre politico perché riguarda la realtà, ma io sono indipendente: infatti ho ritintati) quando mi hanno chiesto di essere membro del partito. Ora io sono il presidente della Jul». Lei ò uscito dal pc sorbo a 21 anni purché quel partito allora era nazionalista e si è alleato adesso con Milosevic, supernazionalista, rossonero. Non c'è una contraddiziono profonda? «Qui sbagliate, non capite niente voi occidentali. E l'errore provoca altri errori, drammatici, Milosevic non è un nazionalista. Non ha un'ideologia, e un tecnico, un uomo eli banca. Dovete capire che qui non c'è una classe politica conie in Italia. C'è solo un apparato che è come uno strumento, un mezzo di cui bisogna servirsi. L'ideologia bisogna dargliela, a Milosevic». Bella ideologia che gli ha fornito. Il Paese è completamente isolato, l'Europa vi ha respinto e ha respinto la vostra ideologia nazionalista. «Isolamento? L'Europa dovrà capire e pagherà i suoi errori. Il processo di unità europea è stato forzato da statisti che certo non sono paragonabili ai De Gasperi o agli Adenauer. L'Europa non ha un esercito, non ò una potenza autonoma in grado di avere una reale indipendenza dagli Stati Uniti. Del resto è sempre stato così. Lei sa la storia?». Un po'. «Allora, anche se si sa un po' di storia europea si ricorderà che dall'epoca dell'Impero carolingio in poi, gli eserciti dovevano stare ai confini, mai nel cuore dell'Impero, Così, se nota, avviene adesso. La verità è che bisogna assicurare il controllo del corridoio sud-balcanico che dal Kazakbstan porta il petrolio sino all'Albania. La guerra è stala fatta solo per questo. Gli italiani, con il porto di Trieste, e i tedeschi più a Nord rischiano di restare fuori da questo canale privilegiato». Bastava che Milosevic accettasse le condizioni di Rambouillet. Ora ha dovuto subire la perdita del Kosovo. «No. Rambouillet consentiva che per le strade di Belgrado passeggiassero i soldati della Nato. Il Kosovo è perso, ma, almeno per ora, questo non avviene in Serbia». Lei e il suo partito pensate davvero, come dice il nome, che la Jugoslavia un giorno potrà mai risuscitare? «La Jugoslavia non ci sarà mai più». L'artista, che è anche presidente dello «Jul», il partito della moglie del leader mette in scena «Le storie di Sarajevo» «11 Kosovo è perduto, non la Serbia, almeno per ora. La Jugoslavia? Non ci sarà mai più» 71 Il regista iugoslavo Ltubisa Ristic: "Nei sono uscito dal partito comunista perche ero e sono rimasto di sinistra e non sono un nazionalista» Abitanti di Belgrado in coda per acquistare i biglietti del teatro durante i bombardamenti della Nato