«Sicuri di queste cinque sentenze»

«Sicuri di queste cinque sentenze» «Sicuri di queste cinque sentenze» II verdetto dopo cento ore di camera di consiglio Brunella Giovara inviata ad ALESSANDRIA Le somme le hanno tirate venerdì mattina, una decina di ore prima di uscire con la sentenza: cinque colpevoli, due assolti: Voto unanime, nessuna incertezza e nessun contrasto. Restava da quantificare le pene, «fare i conti» degli anni di carcere. Ma per arrivare a quel momento ci sono volute un centinaio di ore, e l'analisi di tutte le carte del processo. Una faticaccia, approdata ad una certezza finale: «Siamo sicuri di non aver trascurato nulla». Un lavoro guidato con mano ferma dai due membri «togati» della Corte, il presidente Gallizia e il suo braccio destro, il giudice a latere Lorenza Calcagno, il magistrato a cui adesso tocca il compito di scrivere le motivazioni della sentenza. Assieme a loro, nel chiuso della camera di consiglio ospitata nella scuola di Polizia di Alessandria, i sei giudici popolari. Il preside di scuola media Pietro Rava, l'insegnante elementare Valter Guasco, l'orafo Aldo Caudini, l'impiegata Lucia Bevacqua, l'operaio Claudio Zulian, la maestra d'asilo Enrica Maria Amisene Sei persone normali, sorteggiate come potrebbe succedere a chiunque per decidere se condannare o assolvere imputati mai visti né conosciuti prima, e dei quali si è a malapena sentito qualcosa in un telegiornale, o letto sui quotidiani. «La banda dei sassi», «i fratelli Furlan», «quell i del cavalcavia della morte». Frasi vuote. Titoli. E poi, eccoti chiamato a fare il giudice proprio su quella storia lontana, a dover scegliere il destino di sette persone, che non «sono mica ladri di polli, ma sospettati di omicidio!». La Corte si è ritirata lunedì, ore 10. Prima analisi: leconfusaoni rese da alcuni imputati durante le prime fasi dell'inchiesta, gennaio 1997. Letti e riletti tutti i verbali di Paolo Bertocco, Gabrie* le e Sandro Furlan. Poi, le dichiarazioni rese da Loredana Vezzaro e da Roberto Siringo, il racconto della sera del delitto, i movimenti del gruppo a dei singoli, gli spostamenti tra Tortona e il cavalcavia della Cavallosa. Una giornata pesante, la prima, anche perché ai sei «popolari» ronzava ancora in testa l'ultimo appello pronunciato da Franco Furlan: «Non c'entro con questa storia. Lasciate che mi rifaccia una vita, che mi costruisca una famiglia». Quelle parole le hanno sentite tutti bene. Nessuno è rimasto insensibile a quelle frasi, ma l'impatto emotivo è poi' stato superato: essere «frodai» è un dovere, per chi è chiamato à giudicare. Perciò hanno subito messo mano alle carte, ai verbali, alle dichiarazioni e alle ritrattazioni, agli alibi. Si decide in base alle parole effettivamente pronunciate, ai fatti, alle prove di responsabilità. E allora, accantonate le emozioni e la prima giornata di lavoro, gli otto giùdici se ne sono andati a dormire ripensando alle centinaia di pagine prese in esame. «Stanchi morti/e per di più alloggiati in una caserma... Chi di noTha fatto il servizio - militare non ha potuto non fare paragoni con il vitto e l'alloggio delle reclute di qualche anno fa. Ma il "rancio" era buono, temevamo peggio,..». La cucina della scuola di Pohzia ho fatto del suo meglio, sfornato paste al sugo e bistecche in quantità industriale a di qualità più che decente. Gli allievi ìncro- ciati nei corridoi e per le scale sono stati gentili e più che comprensivi, con quegli otto «esterni» affannati e sempre di corsa tra la mensa e la sala riunioni, con il pensiero fisso ai sette faldoni del processo, uno per imputato: mille pagine l'uno. mal contate. Le hanno esaminate tu tte 1 a vorando dodici ore al giorno, una sola ora di relax per il pranzo e la cena. Clima di «grande serenità», e la preoccupazione continua di non trascurare niente, di verificare i particolari, controllare gli orari, trovare i famosi «riscontri». Dubbi? Tantissimi. Ma quelli sono stati scandagliati alla fine. Alcuni dei «popolari» sono rimasti impressionati dal fatto che tutti gli imputati (con l'eccezione di Paolo Furlan) hanno scelto di non sottoporsi all'esame in aula. E ancor più sono stati colpiti dalla mancata testimonianza di Giulietta Marega, la madre dei Furlan, che ha sempre sostenuto l'alibi iniziale dei suoi figli («quella sera eravamo tutti a casa, a cena con i nostri genitori»), ma che al momento di ripeterlo in pubblico si è tirata indietro, avvalendosi della facoltà di non rispondere. «Quale madre non verrebbe in aula a testimoniare a favore dei suoi figli?», si erano domandati i pubblici ministeri nella requisitoria. Lei non lo ha fatto. Perché? I dubbi si sono chiariti via via sulle pagine ancora firmate dal procuratore Cuva, giorno dopo giorno. Giovedì sera tutti sono andati a dormire con «idee chiare» e «coscienza tranquilla». Venerdì mattina, dibattito. Omicidio volontario, pena base anni ventuno. Sono partiti da lì, per fare i conti. Le attenuanti? Concesse le genericho, equivalenti alle aggravanti contestate dalla pubblica accusa. A mezzogiorno dalla scuola di Polizia parte il primo avviso al cancelliere Rocco Speranza, cui toccava il compito di telefonare a difensori e pubblici ministeri l'ora della sentenza. Nel primo pomeriggio la comunicazione dell'orario preciso: «Alle ore 21. Avvisi tutti come da precedenti disposizioni». A quell'ora imputati, difensori, accusa, parti civili, e persino un po' di pubblico, erano puntuali in aula ad aspettare, Ma come le spose ai matrimoni, la Corte è arrivata con un leggero ritardo, giusto il tempo per indossare la fascia tricolore e prendere posto, con facce tirate e sguardi spenti dalla stanchezza. Infine, ecco le loro cento ore di lavoro, condensate in un minuto di dispositivo di sentenza, letta a microfono spento e a voce bassissima dal presidente Gallizia quando ormai mancavano venti minuti alle 22. Voce così bassa che nessuno ha colto subito la sostanza. «Ha detto sette anni?», si domandavano i Furlan. «Diciassette, mi sembra di aver capito». Gli imputati si sono guardati, interrogati, «non so, non ho sentito niente». Allora uno degli avvocati si è girato, ha allargato le braccia e na detto chiaro, scandendo bene le parole, «ventisette armi. E sei mesi». «Nessuno è rimasto insensibile di fronte all'appello di Franco Furlan, ma poi siamo tornati freddi» «Dubbi? Tantissimi ma li abbiamo scandagliati sino alla fine e poi superati rivedendo le carte del processo» I La corte d'assise di Alessandria che ieri ha condannato I quattro fAtelli Furlan e Paolo Bertocco per l'omicidio di Maria Letizia Berdini

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