E IL CARROZZONE PARTE DA FIRENZE CAPITALE

E IL CARROZZONE PARTE DA FIRENZE CAPITALE E IL CARROZZONE PARTE DA FIRENZE CAPITALE Inizia allora l'Italia dell'appalto a percentuale QUl'ecacovi- nedacegesttrdigocoapecdidid ti it t i UI è tutto' un carrozzone»...: l'espressione, utilizzata per indicare un andazzo di patologica commistione tra affari privati e vita pubblica, precede - e *di molto - quella di tangentopoli entrata nel linguaggio comune a partire dai primi Anni Novanta. In un certo senso tra carrozzone e tangentopoli ci sta di mezzo tutta la storia del malaffare nazionale. Vi trova posto sia il business truffaldino radicato all'ombra del sottogoverno che gli accordi sottobanco tra clan di partito e squadre apparentemente ostili del potere economico e pronte, tuttavia, a dividersi fraternamente la torta di illeciti profitti. Sino ad arrivare ad oscure e permanenti intese tra i cosiddetti faccendieri e gli uomini che, pur piazzati a timonare la cosa pubblica, hanno più a cuore il proprio portafoglio che i conti dello Stato. Il «carrozzone» entra nella storia italiana percorrendo le strade della Firenze capitale provvisoria del Regno d'Italia, nella seconda metà degli Anni Sessanta del secolo scorso. Gli affari - di proporzioni assolutamente inaudite per quei tempi - che il nuovo Regno offre alla finanza internazionale sono essenzialmente tre: il decollo di un vastissimo piano di appalti per le costruzioni ferroviarie, la vendita dei beni demaniali ed ecclesiatici ,incamerati e la costituzione della Regia cointeressata dei tabacchi (vale a dire il Monopolio dei tabacchi). Non appena si profila tutto questo ben di Dio sul quale mettere le mani i diversi gruppi finanziari operanti a livello europeo sembrano disposti ad ingaggiare una lotta all'ultimo sangue, o forse sarebbe meglio dire all'ultima tangente, pur di imporsi sui concorrenti. Il contrasto tra Crédit Mobilier e il gruppo Rothschild sembra di quelli insanabili. Poi, magicamente, si compone una sorta di armistizio che accontenta tutti ed assegna, ad ognuno, il proprio posto nel carrozzone delle «privatizzazioni» in partenza. Il primo terreno d'intesa è l'appalto delle vendite delle terre demaniali ed ecclesiastiche assunto con ecumenico accordo dagli ex avversari. Poi - procedendo nel programma finanziario delineato dal ministro Cambray-Digny che inaugura, come scrive lo storico Alfredo Capone, «una poUtica di dichiarato favore - ancor più che nel '63-'64 - ai gruppi di speculazione privata, soprattutto toscani, appoggiati alla finanza estera» - si assegna la mega-torta della Regia dei tabacchi. L'appalto al Credito Mobiliare e ad altri istituti finanziari associati è la logica conseguenza di obbligazioni recentemente assunte dal governo: «Quando Menabrea prese il governo e diede le finanze al conte Cambray Digny, mancavano duecento milioni per fare i pagamenti più urgenti e bisognava ricorrere agli usurai» scrive Pietro Gerbore in Commendatori e deputati. Ma gli usurai non danno denari senza un pegno che largamente li copra contro ogni rischio, «Gli usurai - prosegue Gerbore - erano tre: Domenico Balduino, signore e padrone del Credito Mobiliare di Genova, Carlo Bombirmi, direttore dello stabilimento Ansaldo e anche della Banca Nazionale, e Pietro Bastogi, livornese, già banchiere di Mazzini e del granduca di Toscana, ch'era guizzato tra tutti i partiti, approdan- do, sotto Cavour, al ministero delle Finanze. Il pegno da essi richiesto fu la Regia dei tabacchi». Non importa che Balduino, col suo Credito Mobiliare, sia reduce dei contraccolpi finanziari del Crédit Mobilier falhto nel 1867. Né che il Credito Mobiliare abbia - come scrive sempre Gerbore «sperperato il primo capitale in ridicole impese e criminosi giochi di borsa. Poi erano state emesse nuove azioni e tentate nuove speculazioni. Con quale risultato? I ministri avevano chiesto quanto fossero quotate le azioni di quell'istituto dal valore nominale di cinquecento lire? A centrotrenta lire!». Ma la convenzione tra il pubblico erario e questi finanzieri d'assalto ha degli sponsor potenti; vanno da Bettino Ricasoh a Marco Minghetti (sì, proprio lui, il premier che più tardi, nel tempo lasciatogli libero dalle lezioni di latino impartite alla regina Margherita, scriverà un virtuosissimo saggio su Ipartiti e la loro ingerenza nella giustizia e nellapubblica amministrazione). Così si vara l'accordo: la società di Balduino che dispone di un capitale di cinquanta milioni di lire «avrebbe versato allo Stato un'anticipazione di trenta milioni, reperiti mediante l'emissione di obbligazioni garantite dallo Stato stesso, oltre ad una quota fissa, una percentuale del 40 per cento sugli utili». Facendo quattro conti ci si accorge che lo Stato, per far entrare nelle sue casse la somma effettiva di 171 milioni, finisca con l'accollarsi un debito complessivo di 237 milioni Con l'obbligo, inoltre, di versare - su questo debito - un interesse annuo del 6 per cento. La faccenda è così scandalosa che la vecchia Destra piemontese e la Sinistra fanno fronte unito in parlamento per impedirne il decollo. Il presidente della Camera dei Deputati, quel galantuomo di Giovanni Lanza che quando diventerà premier scriverà tutto contento alla moglie, rimasta a Casale Monferrato, di essere riuscito a vivere nella nuova capitale spendendo meno di cinque lire al giorno, alza la voce. Scende dallo scranno di presidente dei deputati per poter intervenire contro la convenzione. Al fidato collaboratore Castelli scriverà: «La Regia cointeressata è un affare scandaloso, indecente, che può stare a fianco, se non avanti, a quello delle ferrovie meridionali. La paternità è la stessa». Una paternità che consente a Balduino e soci di razziare, in quindici anni, la somma tutt'altro che trascurabile di 103 milioni di lire. Nonostante l'autorevole intervento, e accese polemiche giornalistiche, il provvedimento passa: non mancano accuse contro deputati accusati di aver ven: duto il voto in cambio di ingenti cointeressenze nell'affare. Uno degli accusati è l'onorevole Civinini passato - anche a quei tempi si usava - da uno schieramento all'altro. Un suo collega, Lobbia, sostiene di aver le prove della sua corruzione. L'accusa non porta fortuna a Lobbia, passato alla storia - più che per questa denuncia o per il copricapo di feltro morbido che utilizza spesso (la «lobbia», appunto) - per le tre pugnalate che il 15 giugno 1868, in via dell'Amorino a Firenze, cercano di farlo tacere per sempre, Qualcuno afferma che l'aggressione è una simulazione e che le accuse di Lobbia sono fandonie. Una commissione d'inchiesta non giunge a definitive conclusioni. I testimoni dell'aggressione invece - non hanno fortuna: uno muore misteriosamente, l'altro viene trovato annegato in Arno. Il magistrato che ha avviato una rigorosa inchiesta su tutta la faccenda viene trasferito a L'Aquila. E il «carrozzone», indisturbato, prosegue lungo il suo lucroso cammino. Oreste del Buono Giorgio Boatti gboatti@venus.it Le tre grandi «torte» da dividersi: i soldi del piano per le ferrovie, la vendila dei beni demaniali incamerati e la costituzione della Regia dei tabacchi Giovanni Lanza si battè inutilmente contro io scandaloso «affare dei tabacchi» LUOGHI COMUNI miNONAIE MF.MOiilE MII.'HAIm l'NMA Q Da leggere: Pietro Gerbere, Commendatori e deputati Longanesi, Milano 1954 Enrico Tnvallini La vita e i tempi di Giovanni Lanzi Roux. Torino 1887 Alfredo Capone Destra e sinistra da Cavour a Crispi Utet, Torino 1981 Marco Minghetti I partiti politici e la loro ingerenza nella giustizia e nella pubblica amministrazione M?:B editori, Milano 1995