«Il corpo nel Paese di D'Alema»
«Il corpo nel Paese di D'Alema» «Il corpo nel Paese di D'Alema» Iparenti delle vittime: non sporchi questa terra inviato a MUDANYA Tornano da una sentenza di morte, ma sembrano un gruppo di ultra al rientro da una trasferta vittoriosa. Bandiere al vento, grida e slogan ritmati, l'urlo della sirena che rimbomba nel cielo azzurro; sul battello che riporta a Mudanya il pubblico di Imrali c'è aria di festa per il verdetto contro Abdullah Ocalan, il capitano capisce l'antifona e fa la sua parte: anziché entrare nel porto la nave si mette a danzare sull'acqua, avanti e indietro in mezzo al mare per la gioia di chi si sbraccia dal ponte e di chi, a terra, agita drappi e striscioni. Sull'isola sono andati in poche decine, ma ad attendere sul molo quelle due agognate parole - idama mahkum, con¬ danna a morte - sono almeno in duemila. Sotto un ombrellone troppo piccolo c'è la tv accesa, e un paio di minuti dopo le 10,30 l'inviato della tv turca a Imrali annuncia: Apo è stato condannato alla pena capitale. E' il tripudio: prima l'applauso, poi gli slogan che andranno avanti fino all'ora di pranzo: «I martiri non muoiono, la patria non si divide!», «Imrali sarà la sua tomba!», «Gridate, gridale, che Apo ci ascolta!». Un uomo avvolto nella bandiera con la mezzaluna si preoccupa dell'immediato futuro: «Ora devono impiccarlo nel più breve tempo possibile, ma il suo corpo non può sporcare la nostra terra. Lo seppelliscano nel Paese di D'Alema!». L'Italia è uno dei bersagli preferiti di questa folla urlante, una donna ci riconosce e grida: «Dite a D'Alema che i turchi non sono barbari e rispettano i diritti umani, altrimenti il problema del Pkk lo avremmo risolto da tempo». Si chiama Gùlsun Gùlerce, e viene da Kesan, un villaggio della Tracia ai confini con la Grecia. Appesa al collo porta la foto del figlio, Erdogan, matricola 8236 dell'esercito, morto in combattimento a venlun'anni: «Oggi mio figlio sorride, perché ha avuto giustizia. Ocalan non merita nessuna pietà, è un traditore della patria». E i suoi messaggi di pace, i proclami di Apo perché curdi e turchi vivano sotto lo stesso cielo come fratelli? «Sono tutte bugie, non credo a una parola di ciò che ha detto. Lui ha parlato per salvarsi la vita, non è nemmeno un vero capo, è solo un fifone». Sfiancata dal sole e dall'emozione, un'altra madre piange: «Il corpo di mio figlio è stato bruciato, non l'abbiamo riavuto indietro e non abbiamo potuto fargli il funerale. Qggi finalmente lo stiamo celebrando». Vicino a lei un signore si squarcia la gola per lanciare un nuovo slogan: «I nostri martiri sono immortali!». Il molo ormai è una bolgia, un drappello di Lupi Grigi improvvisa un corteo per le vie della città, qualcuno sviene e ala confusione si aggiungono le sirene delle ambulanze. Tra la folla spunta un volto noto in tutta la Turchia: è Cùneyt Arkin, l'attore più noto del Paese, una specie di Richard Gere che da qualche tempo fa il commentatore in tv. La gente gli stringe le mani e lo bacia, lui sorride. Perché tanta gioia per un uomo condannato alla forca? «Voi occidentali - risponde Arkin - dite che il diritto alla vita è la cosa più importante, ma chi si preoccupa dei diritti delle 30.000 vittime della guerra? L'esecuzione di Ocalan è necessaria, perché la vuole la coscienza del popolo turco». Jn mezzo alle strada un gruppo di madri improvvisa una danza al suono del clarinetto che intona la mether, l'inno di battaglia dei giannizzeri sotto l'impero ottomano. Allora si combatteva, oggi si festeggia una condanna a morte. [gio. bia.)
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