Cosa sognano i terroristi?

Cosa sognano i terroristi? Utopia, paura, delirio d'onnipotenza: ecco che succede quando la «lotta rivoluzionaria» prende le armi Cosa sognano i terroristi? La psicanalista americana Carole Beebe Tarantelli è stata la moglie di Ezio Tarantelli, reconomista assassinato dalle Brigate rosse il 27 febbraio 1985. Ex deputato del pds, Carole Tarantelli insegna Letteratura inglese all università La Sapienza di Roma. Per la rivista Micromega ha scritto un'analisi psicologica dei terroristi, di cui anticipiamo uno stralcio. Nello stesso numero della rivista da oggi in libreria un dialogo tra Massimo Cacciari e Gianni Vattimo sugli errori della sinistra dopo la sconfitta, un intervento dello psichiatra Luigi Cancrini sulle turbe psichiche di Padre Pio e un saggio di Adriano Sofri sul sistema giudiziario italiano. \Carole Beebe Tarantelli r\ I UANDO subiscono eventi 11 traumatici, le società, coI I sì come gli individui, tenY dono a resistere a una loro elaborazione, processo che comporta il riconoscimento del perdurare degli effetti del trauma e l'uso della reazione emotiva da essi suscitata come stimolo per pensarli e interpretarli. Mi sembra che anche la società italiana abbia trovato difficoltà a elaborare il trauma del terrorismo degli Anni Settanta e Ottanta, che è stato rimosso nel momento che esso ha cessato di essere una minaccia, per riemergere pressoché inalterato oggi con l'assassinio di Massimo D'Antona. Non è che il terrorismo non sia stato studiato: però le analisi srientifiche tendono a essere lette soprattutto da specialisti, mentre il dibattito pubblico non è andato molto più in là delle discussioni sul perdono. I terroristi, invece, hanno ripensato alle loro azioni. Hanno scritto autobiografìe, prendono parte a tavole rotonde nelle scuole e altrove e, ogniqualvolta si riaccenda il dibattito, vengono intervistati dai media. L'aspetto paradossale di questa situazione è che sostanzialmente l'unica «lettura» del terrorismo di cui l'opinione pubblica dispone è quella che gli stessi terroristi danno delle proprie azioni. L'alternativa è l'indignata ripulsa morale contro il terrorismo «barbaro». Ma l'indignazione morale, purtroppo, non ci aiuta a comprendere il fenomeno (quantunque abbia molta utilità nel combatterlo). E' semplicemente falso affermare che i guerrieri ideologici, di cui i terroristi costituiscono una versione, sono inumani, barbari o bestiali; non c'è niente di più umano della violenza legittimata. Sono i guerrieri dell'ideologia ad aver ucciso milioni su milioni di esseri umani durante il corso della storia. Possono arrivare allo sterminio, o possono vedersi come gli esecutori di una crudele e tragica necessità ma, ai loro occhi, la violenza che compiono è sempre giustificata. Sono i custodi e gli interpreti di un'ideologia salvifica e che questa ideologia vinca è una questione di vita o di morte per loro, per la società e in ultima analisi per l'umanità. L'indignazione morale non li tocca affatto. Inoltre, come ha dimostrato lo stenninio nazista, nato nella terra che ha prodotto le più alte espressioni del pensiero morale, la barriera etica è un freno insufficiente contro l'impulso che porta l'uomo all'assassinio ideologico. L'Olocausto ha reso ancora più cruciale la comprensione delle dinamiche dello violenza collettiva, poiché esso è stato l'apoteosi degli aspetti distruttivi che accompagnano la creatività che caratterizza la nostra cultura. Dopo tutto Auschwitz era il trionfo delle capacità organizzative e tecnologiche, capacità che caratterizzano la creatività del moderno: ha invece industrializzato lo sterminio. Dopo l'Olocausto è sorta la terribile domanda se la distruttività non sarebbe prevalsa sulla creatività della nostra storia, un dubbio diventato apocalittico in tempi in cui la capacità distruttiva della tecnologia è totale e disponiamo dei mezzi per rendere concreta la fantasia psicotica della distruzione del mondo. La comprensione del fenomeno della violenza collettiva è quindi importante per la nostra vita sociale e persine per la nostra sopravvivenza collettiva. Quando i terroristi hanno deciso di prendere le armi, hanno messo in atto una parte della retorica del movimento degli Anni Sessanta. Ma soltanto una parte. Perché nel movimento, la lotta «rivoluzionaria» sociale e culturale era in un rapporta dialettico con la lotta «rivoluzionaria» politica per trasformare (o rovesciare) il sistema capitalista, mentre le Brigate rosse e gli altri gruppi terroristici hanno diviso questi due spazi, rinviando la lotta per la libertà e l'autodeterrninazione sociale e culturale a una fase successiva alla rivoluzione politica violenta. L'autobiografia di Mario Moretti fornisce l'esempio più chiaro di come questa divisione si è verificata nelle vite dei terroristi italiani. Negli anni precedenti l'arruolamento delle Brigate rosse, viveva in una comune tipica di uno stile di vita alternativo: si sposò e lui e sua moglie ebbero un figlio che allevarono insieme agli altri componenti della comune. La sua de¬ scrizione di questo momento della sua vita è piena di senso di sperimentazione aperta, mentre lui e i suoi amici costruivano una comunità alternativa, rumorosa, disordinata, spiritosa e creativa. La stessa enfasi sulla sperimentazione e la creatività è presente nella sua descrizione dell'attività politica nella fabbrica dove lavorava. «Ai funzionari l'assemblea appare un caos, è incontrollabile, ed effet- tivamente è il momento della massima creatività, dove s'inventano anche nuove forme di lotta, gli scioperi articolati per reparto, i cortei interni, le occupazioni pacifiche. (...) E' una comunicazione come non c'era stata mai». (M. Moretti, 1994, p. 10). Anche Curcio ricorda questo aspetto dei primi anni del movimento, riassunto nello slogan di Mauro Rostagno: «Portare gaiezza nella rivoluzione». E aggiunge: «Per alcuni mesi funzionò. Nel collettivo si cantava, si faceva teatro, si tenevano mostre di grafica. (...) Era una continua esplosione di giocosità e invenzione» (R. Curcio, 1993, p. 49). Gli spazi del privato, gli spazi del lavoro e gli spazi della politica erano tutti spazi i cui si disputava la lotta per la trasformazione. Quando Moretti entrò nelle Brigate rosse, abbandonò la comune, lasciò sua moglie e suo figlio per la clandestinità: non li avrebbe più visti per vent'anni. Lo scopo estremo della liberazione dall'oppressio- ne dello Stato rendeva inevitabile l'abbandono di tutto, compreso il lavoro e la famiglia. E la lotta per la pluralizzazione divenne la lotta per la rivoluzione monolitica. Colpisce il fatto che il modo di ragionare delle Brigate rosse non è mai pienamente politico. Ad esem pio, non calcolando il grado di consenso che gli italiani accordano allo Stato, e in che misura essi sarebbero disposti a seguire delle persone le cui azioni condurranno a pesanti conflitti armati se non addirittura a una guerra civile che avrebbe messo in pericolo la nuova prosperità del dopoguerra. (...) La visione di uno Stato democratico che reprime il dissenso in modo totalitario ha un nome. Si chiama paranoia. Anche il venir meno della capacità di misurare la realtà con le proprie potenzialità e i propri limiti ha un nome. Si chiama delirio d'onnipotenza. La prima domanda che sorge è quale sia la relazione tra la patologia individuale e la propensione a partecipare alla violenza collettiva: dobbiamo addebitare il terrorismo italiano alla paranoia e al delirio d'onnipotenza di singoli individui che cercavano solo un pretesto per esprimerli? Questa interpretazione del terrorimo sarebbe rassicurante, poiché ci porterebbe a concludere che solo gli individui patologici (e non quindi le persone «normali») sarebbero a rischio di «agire» la violenza. Ma non c'è alcuna indicazione che sia così. Sembra che i terroristi italiani facciano parte di una normale sezione trasversale della popolazione italiana. Il primo dei denominatori comuni ai gruppi violenti è quello di percepirsi come impegnati in una missione di sopravvivenza, Tutti sono convinti che il proprio gruppo sia sottoposto a una minaccia mortale da parte di un nemico dotato d'una capacità distruttiva totale. Per illustrare la somiglianza strutturale della paranoia dei gntpi violenti possiamo ricorrere a due esempi che dal punto di vista ideologico sonfc diametralmente opposti ai terroristi di sinistra. Il primo esempio è quello dei nazisti. ..) 11 secondo esempio viene dall'estrema destra americana, una galassia di gruppi che vanno dai neonazisti, ai militanti per la supremazia della razza bianca, agli integralisti religiosi. (...) Se la dinamica sottesa alle ideologie schizoidi fosse da sola sufficiente a produrre azioni violente, la guerra civile sarebbe la norma nella vita associata. Ma poiché ciò non avviene, dobbiamo comprendere come questa dialettica diventi mortale. E qui vediamo il terzo fattore che porta individui altrimenti «comuni» a commettere atti di violenza: la loro adesione a un gruppo (o un'istituzione) dall'ideologia totalizzante, nel quale la vitalità fondamentale (quella personale, del groppo, della propria causa e, in ultima istanza, dell'umanità intera) dipende dalla vittoria del progetto salvifico che il gruppo ha come obiettivo. Queste ideologie sono intrinsecamente violente, quanto meno a livello simbolico: si appropriano del «bene», ragion per cui qualsiasi opposizione al loro progetto è, per definizione, un ostacolo al bene ed è quindi «cattiva». Ma neppure l'adesione a ideologie totalizzanti basta da sola a spiegare l'azione violenta. Il fatto è che la messa in atto della violenza diventa possibile quando l'ideologia totalizzante viene a innestarsi sulla dinamica di un gruppo chiuso. In altre parole, i gruppi di pari, o le alte autorità nel caso di imo Stato violento, autorizzano la violenza e gradualmente dissolvono la coscienza individuale. Così il gruppo diventa l'arbitro ultimo di ciò die è possibile o impossibile, di ciò che è giusto o ingiusto. A questo punto, la violenza, da immagine, può diventare una guida all'azione. l gruppi eversivi si sentono impegnati in una missione di sopravvivenza Tutti sono convinti di essere sottoposti a una minaccia mortale ianni Vattimo sconfitta, un Cancrini sulle un saggio di rio italiano. Pallottole e numeri: un macabro simbolo degli anni di piombo A sinistra: Carole Beebe Tarantelli itandcnondereti mfattomendi vgruplogiavitasona

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