«Il mio rene per 80 milioni »

«Il mio rene per 80 milioni » Svolta nell'inchiesta della procura di Torino che ha nel mirino il Policlinico Umberto I di Roma «Il mio rene per 80 milioni » Scandalo trapianti, in cinque confessano Nino Pietropinto Lodovico Poleìto TORINO Da una part j i poveracci, senza una lira in tasca, ma con una famiglia da mantenere. Dall'altra i ricchi: piccoli imprenditori con discrete possibilità economiche, ma malati, costretti da anni alla dialisi. Se non ci fossero stati di mezzo i soldi e la vita che i poveri donavano ai ricchi, vendendo loro un rene - le rispettive strade non si sarebbero mai e poi mai incrociate. Cinque volte, dice adesso la Procura di Torino, il canovaccio in questa specie di gran mercato del corpo umano sarebbe stato lo stesso. Storie complicate, tutte concentrate al Sud, in paesini delle province di Roma, Bari e Napoli. I primi riscontri, i magistrati torinesi, aiutati dai carabineri del nucleo operativo, li hanno trovati spulciando tra i documenti di una ventina di cartelle cliniche (una parte sequestrate poco meno di un mese fa, a Roma, al policlinico Umberto I, il resto acquisito una decina di giorni fa) di trapianti di reni tra persone non consanguinee. Cinque donatori, interrogati l'altra settimana dal pm Enrica Gabetta, hanno ammesso: «E' vero, mi sono venduto un rene». Le cifre di questo commercio vietato dalla legge, ma tutt'altro che impossibile, non sono elevate: si va da un minimo di 80 ad un massimo di 130 milioni. Ma c'è anche chi sarebbe rimasto truffato. Come Alfredo Calvo, 44 anni, disoccupato barese al quale il ricevente (proprietario di un'azienda vinicola) aveva promesso un lavoro e una casa nuova. Gli ha dato 15 milioni in contanti prima dell'intervento; a operazione terminata soltanto una manciata di assegni tutti scoperti. Non sarebbe, dunque, una storia isolata quella di Vito di Cosmo, l'ex rappresentante di Francavilla Fontana che nel '97, per saldare i debiti con gli usurai, vendette un rene per 80 milioni. E quello che fino a poche settimane fa - in Procura a Torino - era soltanto sospetto sul quale nessuno osava sbilanciarsi, adesso è diventato una certezza: sarebbe vasto e ramificato il fenomeno delle donazioni a pagamento. Seguendo questa pista, il pm Gabetta la scorsa settimana è tornata a Brindisi, dov'era partita l'indagine, ed ha interrogato donatori e riceventi dei casi sospetti. Otto le persone già sentite: le cinque che hanno venduto l'organo in cambio di alcune decine di milioni e tre che lo hanno ricevuto e pagato. Tutti erano andati a farsi operare nella capitale, dall'equipe del professor Raffaello Cortesini, un luminare nel campo dei trapianti. Lo hanno fatto - avrebbero raccontato i donatori perchè le aziende sanitarie della loro provincia si erano rifiutate di eseguire l'intervento. Troppo rischioso. E non soltanto dal punto di vista medico ma anche perchè si trattava di operazioni tra persone non consanguinee. Dunque: si sarebbe potuto celare un passaggio di denaro. A Roma, invece, le cose sarebbero state più semplici. Tutte le persone che il magistrato ha ascoltato per ore hanno spiegato che nessuno, in ospedale, si è informato sul perchè di una persona estranea. Anzi, hanno raccontato che l'autorizzazione del pretore veniva richiesta soltanto dopo il ricovero in ospedale e dopo che gli esami di compatibilità erano già stati eseguiti. A quel punto, un'auto del policlinico, o un'ambulanza, li accompagnava in pretura dove risolvere la pratica era poco più che una formalità. Stavolta, però, nessuno ha raccontato di aver dato denaro al primario o ai medici del suo staff tecnico. Lo aveva fatto soltanto Di Cosmo, facendo finire nel registro degli indagati anche il professor Cortesini. La notizia dei cinque nuovi casi di vendita di rene scoperti dai magistrati di Torino ha suscitato 1 immediata reazione del primario del policlinico. A caldo, dice: «Io i reni non li vendo». Poi aggiunge: «Ho calcolato che da quando abbiamo cominciato i trapianti, nel 1984, gli interventi sono stati 600. Manderò tutti quelli che ho operato a Torino, a mie spese, in modo che i giudici possano riunirli in un'aula e interrogarli e, dopo, convenire che qui nessuno ha venduto nulla». Poi polemizza con la magistratura subalpina: «Sono andato a ricontrollare le cartelle che abbiamo inandato ai magistrati: riguardano un trapianto da madre a figlio, due tra fratelli e due tra moglia e marito. Mi sembra proprio che non si possa parlare di cessione di organi tra non consanguinei». La replica del prof. Cortesini: «Non ho mai venduto organi Per dimostrarlo sono pronto a portare a Torino 600 pazienti» Di Cosmo e il professor Cortesini. Sopra: il Policlinico