la normalità dell'orrore di Barbara Spinelli

la normalità dell'orrore La tragedia dei Gulag nella raccolta integrale dei «Racconti della Kolyma» del grande e perseguitato scrittore russo la normalità dell'orrore Barbara Spinelli ' difficile immaginare l'uomo in condizioni estreme, di eccezione. Condizioni di dolore, di Jfame, di umiliazione, di gelo. Condizioni in cui la sua essenza d'uomo è annientata, e nulla gli resta delle nozioni apprese in epoche civili se non la percezione fisica del proprio corpo offeso, consegnato a morte violenta. Neppure i sogni aiutano a immaginare, perche i sogni ci presentano l'orrore assoluto sotto forma di incubo, e in essi ritroviamo ancora sentimenti umani conosciuti: il senso di vergogna , di menzogna. Solo i detenuti dei lager hanno traversato quella linea di confine, dove l'esistere dell'uomo diventa impensabile, e nessuna lezione impartita dai padri ha più senso: nessuna lezione sul dominio della paura, del soffrire. Solo i prigionieri dei lager nazisti, e i detenuti dei lager comunisti nell'Estremo Nord della Kolyma, sono penetrati nel cuore di tenebra delle due ideologie, e/hanno vissuto la lóro natura mortifera non come incubo, ma come irrefutabile normalità. Si conoscono meno cose sul cuore di tenebra del comunismo, perché il suo regno è durato a lungo e il rifiuto di sapere resta tenace. Soprattutto in Italia, per una nostra radicale incapacità al pensiero solitario, non conforme. Ci sono tanti scrittori che hanno narrato i Gulag, ma i Gulag non possiedono ancora una vera esistenza, nelle menti: una esistenza non falsificabile, indipendente dalle diatribe intellettuali attorno a comunismo e nazifascismo. Sicché non giunge inopportuna la pubblicazione dei Racconti delia Kolyma di Varlam Shalamov, presso la casa editrice Einaudi: dell'intera raccolta, per la prima volta e con impressionante ritardo. Perché lo scrittore non teorizza, non tenta di dimostrare con la forza del ragionamento, non scrive per insegnare. La sua potenza narrativa è tutta nella laconica descrizione di singoli fatti, personaggi, che ha vissuto e visto nella Kolyma. Lui stesso scrive nel '71 a Irina Sirotinskaja, la curatrice del volume di Einaudi, che «qui vengono raffigurati uomini che si trovano in una condizione estremamente importante, mai descritta prima: una condizione che è al confine tra l'umano e il trans-umano. La mia prosa è la documentazione di quel pòco che è restato dell'uomo», dopo esperienze d'eccezione come Auschwitz o la Kolyma. E' anche il tentativo, come nel poeta Paul Celan, di accendere luci di poesia nel fondo del cuore di tenebra. Ne vengono fuori questi racconti con frasi secche, pochi aggettivi: quasi resoconti polizieschi, ma regolarmente traversati - d'improvviso • da fasci di luce: «Ognuno dei miei racconti ha l'attendibilità di un protocollo». Cechov aveva questa vocazione alla redazione del protocollo, illuminato da con-passione poetica: è il caso del limpido Rapporto su Sahalin, l'isola dei deportati, scritto nel 1890 (Biblioteca del Touring Club Italiano, 19981.11 filosofo Shestov scrisse che Cechov era «uno degli scrittori più silenziosi» della letteratura russa, e questa prosa silenziosa, volutamente disadorna, appare anche in Shalamov. E' il motivo per cui i suoi racconti hanno questa efficacia al tempo stesso protocollare, silente, e luminosa. L'efficacia di una sentenza, confida ancora il memorialista dei Gulag. Shalamov stesso, quando descrive il prevalere del mondo criminalmafioso alla Kolyma, si erge contro la romanticizzazione del- l'eroe malavitoso nei romanzi di Dostoevskij, ed ha parole di ammirazione per il Rapporto di Cechov: «Sull'isola di Sahalin la turpitudine dei luoghi di detenzione - che è corruzione e abbrutimento - distrugge, e non può non distruggere, quanto nell'uomo c'è di puro, di buono, di umano». (A proposito di un errore della letteratura). Sentenza è uno dei racconti di Shalamov in cui queste diverse qualità - prosa protocollare, adesione del verbo alla nudità dei fatti, spiragli inattesi di intensa luminosità - si condensano sino a sfiorare il subbine. In un altro racconto - Il Guanto - lo scrittore dice: «Tutto ciò che è importante me l'ha insegnato il corpo»: e cioè gli estremi Umili dell'umiliazione, le botte,i manrovesci, le spinte e pedate, i quotidiani pestaggi. Ma nella Sentenza si parte aa questa normalità dell'orrore - il prevalere del corpo sull'anima, l'ineluttabile disumanizzarsi, perire dell'uomo - per narrare il cammino inverso: il lento ritorno delle sensazioni, delle emozioni, dell'umanità, dal de profundis. Le vicissitudini dell'anima, lungo la linea di frontiera tra morte e vita, .tra sentimento del nulla e ripresa. Il miracoloso ritorno-salvataggio della parola. Oneste diverse tappe sono come tagliate con l'accetta, e narrano di esperienze universali. Non l'indifferenza ma la rabbia è «l'ultimo sentimento umano a scompari¬ re»: il sentimento «più vicino alle ossa», quando non vi è più molta carne attaccata, quando mani gambe piedi piagati dal gelo stillano pus. E' (di sentimento con il quale l'uomo spariva nel nulla, nel mondo inanimato». E poi d'un tratto rabbia e rancore si acquietante riappaiono l'indifferenza, la temerarietà: «Capii che per me era indifferente che mi picchiassero o meno, che mi dessero la razione o non me la dessero affatto (...) Grazie a questa indifferenza, a questa temerarietà, venne in qualche modo gettato un ponticello che m'allontanava dalla morte». Dopo l'indifferenza sopraggiungono la paura, poi l'invidia, poi - miracolo - la compassione degli animali prima ancora della compassione per gU uomini. I racconti di Shalamov sono traversati da queste compassioni per una gatta senza nome, per una giovane anatra che non aveva fatto in tempo a migrare, che lottava sempre più debolmente contro la neve, che «ingannata dalla luce fredda dello jupitcr" si era precipitata verso il riflettore nello spiazzale del giacimento, sbattendo le ali appesantite e bagnate, cercando il sole, e il calore».(L'ingegner Kiselev). Tra le passioni, solo una non si recupera: «L'amore non mi tornò. Ah, com'è distante l'amore dall'invidia, dalla paura, dalla rabbia. Quanto poco bisogno ne hanno gli uomini. L'amore sopraggiunge soltanto quando tutti gli altri sentimenti sono tornati. Arriva per ultimo, ritorna per ultimo, ma ritorna poi davvero?». E infine, salvifica nell'afasia gelata dello zek, ecco la parola che torna. E la prima parola è: «Sentenza». Sentenza! Sentenza! E lo zek scoppia a ridere, allarmando i compagni che lo ritengono suonato. Sentencija in russo è vocabolo letterario, raro: «In quella parola suonava qualcosa di romano, di forte, di latino!...) Trascorsero molti giorni prima che imparassi a richiamare dalle profondità del mio cervello sempre nuove parole, parole diverse.una dopo l'altra». Ogni individuo profondo può incrociare se non queste eccezionali circostanze, questo stato d'animo eccezionale: questo ondeggiare tra nulla e essere, tra disanimato e animato, che ricor¬ re nei racconti di Shalamov e che nella Kolyma assume dimensioni estreme. Il racconto Ckerry bran ■ dy descrive la morte del poeta Osip Mandelstam, in un lager di transito vicino a Vladivostok, «ma in realtà è un racconto su di me», confessò a suo tempo lo scrittore. Anche qui, nell'agonia di Mandelstam, la vita entra nell'uomo e poi ne riesce, più volte. Anche qui può esser d'aiuto l'indifferenza. Il poeta giace vicino al morire, ma «la vita entrava per conto suo dentro di lui, come una dispotica padrona: lui non la chiamava, ma lei gli pervadeva egualmente il corpo, il cervello, entrava come poesia, ispirazione». La vita toma anche sotto altra forma, al detenuto-zefc: sotto forma della tortura mortale che è la fame, il pensiero costante, assillante, del pane. Poco prima di svanire, Mandelstam riceve la sua razione per le ventiquattro ore, e il poeta «la strinse forte con le dita esangui premendosi il pane contro le labbra. Morse il pane con i denti indeboliti dallo scorbuto, le gengive sanguinavano, i denti traballavano, ma lui non sentiva nessun dolore». I vicini cercano di fermarlo, gli consigliano di conservarne un po' per dopo. «Dopo quando?», chiede il protagonista prima di chiudere gli occhi e spegnersi. Ma il poeta venne depennato dai registri solo due giorni dopo: per due giorni, gli ingegnosi vicini riuscirono a farsi dare la razione del morto. Sconvolgente è quando Shalamov comincia racconti con una domanda. «Siamo mai esistiti?» ( 71 Guanto). «Un uomo come smette di essere uomo? Come si diventa malavitosi?» {Sangue difurfan te). E, rifulgente sopra ogni altro quesito, quello che costituisce il leitmotiv - martellante come salmo imprecatore - del racconto Come Incominciò, sui lager staliniani e il lavoro forzato nel '38-'39: «Come incominciò? In quale giorno di quell'inverno girò il vento e tutto diventò troppo orribile? In autunno noi ancora lavo...». Come incominciò? Improvvisamente i 3000 detenuti impiegati nel giacimento Partizan vedono arrivare moltissimi «combattenti», guardie che fanno sparire un'intera squadra di renitenti al lavoro e di trotzkisti che rientravano nella categoria dei «non lavoratori». Settantacinquemila persone, rinchiuse in una baracca: «Scomparvero tutti all'improvviso, il vento cominciò a far sbatacchiare la porta rimasta aperta, all'interno solo vuoto, oscurità, abbandono». Comincioche gli zek ricevettero, come unica forma di pagamento, il vitto. Cominciò, nell inverno '38-'39, con «tre vortici micidiali». Il primo è la fucilazione a Mosca di Berzin, scopritore e inventore della Kolyma. Seguono le infinite esecuzioni nel lager, l'eliminazione in massa dei «nemici del popolo», dei trockisti: «Per molti mesi, giorno e notte, durante gli appelli del mattino e della sera, veniva data lettura di innumerevoli condanne a morte. Con 50 gradi sotto zero i detenuti - musicanti, dei bytoviki (prigionieri non politici, ndr) suonavano la fanfara prima e dopo la lettura di ogni Usta». Per che cosa uccideva, il colonnello Garanin responsabile delle sentenze di morte? «Il tale ha parlato bene di un autore russo pubblicato all'estero: "propaganda antisovietica", dieci anni. Quell'altro ha detto che le code per il sapone liquido sono esageratamente lunghe: "propaganda antisovietica", cinque anni. E com'è costume per i Russi, com'è nel loro carattere, chi si prende cinque anni è solo contento che non siano dieci. Se ne prende dieci, sprizza di gioia, non sono venticinque, e se sono venticinque fa festa e balla, non è come ricevere una pallottola in testa». Il terzo vortice è la mortalità generalizzata: per fame, percosse, malattie: «Si potè infierire a quel modo, impunemente, su milioni di persone proprio perché si trattava di innocenti. Erano martiri. Non eroi». Ci sono momenti in cui la morte è anelata come balsamo. Un detenuto ad esempio, un settario religioso che recita salmi di notte, un giorno mangia come si deve e grazie a qualche briciola di pane in più trova l'incredibile forza di suicidarsi {Silenzio). E c'è poi la natura, nei lager comunisti: natura assente nei tecnologici lager d'asfalto del nazismo. I larici,! pini nani, le pietre, « fiumi, le gonne squisite bacche di mirtilli o rosa canina, su cui lo sguardo di Shalamov si poggia, e quasi si direbbe si plachi. Sono come i sottili spiragli di luce, nelle tele più tenebrosamente dense di Rothko. E' come se Shalamov avesse dato una voce di poesia alle pietre, ai fiumi, ai rami dei larici. Come se lo scrittore credesse più negli animali e nelle cose inanimate, che nella grandezza dell'uomo. Il lager infatti non insegna nulla, se non la disumanizzazione dell'umanità {Croce Rossa). Non si diventa maturi, nei lager. Nei Gulag «ogni interesse si è ristretto, immiserito, involgarito», e l'immiserimento perdura quando si riacquista la libertà. Nei Gulag si scopre che si può agire in modo vile e ciononostante continuare a vivere. Si può mentire - e vivere. Si può promettere e non mantenere la promessa - e ciononostante vivere. Ci si può bere i soldi d'un compagno. Si attribuisce «alle proprie sofferenze un'importanza eccessiva, dimenticando che ogni uomo ha la sua pena». Si disimpara la compassione, si impara lo scetticismo. Si apprende la paura, la viltà: «Si ha paura di tutto ciò che l'uomo non dovrebbe temere». La pressione fisica diventa infuenza morale. Si impara a detestare il lavoro per sempre. «Il lager è una scuola di vita negativa, in tutto e per tutto, sotto ogni punto di vista. Nessuno ne riporterà mai qualcosa di utile.)...). In esso ci sono cose che un uomo non dovrebbe sapere né vedere mai, e se le ha viste, meglio sarebbe per lui morire». Il comunismo aveva fatto una promessa, al genere umano. Aveva stretto con lui un patto: ti libereremo - aveva detto - dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e dal lavoro che incatena. Ti daremo pane, giustizia, uguaglianza, libertà. La più grande, la più sfacciata colpa del comunismo, è di aver infranto ogni giuramento e sacrificato nei lavori forzati, nel gelo, nella fame, nella fucilazioni di massa, milioni di individui. Di aver screditato per secoli il valore - essenziale nella nostra civiltà - della Promessa, dell'alleanza pattuita, e della Parola data. Botte e manrovesci, le spinte e le pedate, quotidiani pestaggi scandivano il ritmo d'una vita da incubo tra nulla e essere: 41 mio corpo mi ha insegnato tutto ciò che è importante» La forza narrativa dì queste descrizioni laconiche come resoconti polizieschi è tutta racchiusa nella nuda verità di fatti e personaggi einunsentimetito di muta compassione La maggiore colpa del comunismo è di avere infranto ogni giuramento e avere screditato il valore essenziale della Parola data Varlam Tlchonovic Shalamov, nato a Vologda il 18 giugno 1907, morì a Mosca il 17 gennaio 1982. Nel 1929 subì la prima condanna per «attività antisovietica». Fu detenuto in lager una prima volta fra il "29 e il '32. Nuovamente arrestato nel 1937 e condannato ai lavori forzati, restò rinchiuso a Magadan, nelle miniere siberiane della Kolyma dal '37 al '53. Sopra: un'immagine di Shalamov, che concluse la sua tormentata esistenza in ospedale psichiatrico. Nella fotografia centrale il campo, le baracche e il senso di oppressione di un Gulag siberiano

Luoghi citati: Italia, Mosca