La riforma dellepensioni è di destra o è di sinistra?

La riforma dellepensioni è di destra o è di sinistra? ©tLfUiLAUHA La riforma dellepensioni è di destra o è di sinistra? ni tintinnare di sciabole che ■sale dagli acquartieramenti ■delle confederazioni sindacali da un lato e da quelli governativi dall'altro è tanto ripetitivo che verrebbe a noia se non fosse che investe la serenità sociale, la stabilità del governo e della sua maggioranza e, beninteso, il futuro dell'economia, del benessere, dei livelli di vita nell'intero Paese. Verrebbe a noia perché il contendere, la vecchia e stantia questione delle pensioni di anzianità, viene riproposta nei vecchi ed aridi termini contabili: la contabilità della finanza pubblica da una parte, e la contabilità del dare e dell'avere delle categorie socio-economiche dall'altra. Termini, come ormai dovrebbe essere manifesto, che non portano che allo scontro sociale indipendentemente da chi riveste le responsabilità di governo; in questa nefanda ipotesi, la sorte del governo D'Alema non sarebbe diversa da quella che toccò al governo Berlusconi. E questo perché in questi termini contabili - che si esauriscono in saldi ed in rapporti col Pi 1 - ogni distinzione tra destra e sinistra si azzera fino ad innescare futili polemiche sul colore politico delle leggi dell'economia. Se l'integrazione economica e finanziaria mondiale viene considerata solo per i vincoli che essa impone, la conclusione è che essa è di destra. Impone, infatti, continue aggregazioni delle imprese produttive col fine di razionalizzazioni che si concretano in primo luogo nella espulsione di intere popolazioni di lavoratori, Impone di conseguenza crescenti divaricazioni sociali tra chi ha carte da giocare per rimanere nella ristretta e qualificata cerchia di chi produce con successo, e chi, essendone stato espulso, deve accontentarsi di lavori privi di qualificazione, precari, ed a basso reddito. Impone ai governi di limitare drasticamente il loro ruolo redistributivo per consentire crescenti alleggerimenti della pressione fiscale sulle imprese e, almeno per quel che riguarda le rendite finanziarie, sulle categorie più abbienti. Impone, in definitiva, che l'organizzazione e la struttura delle collettività umane si pieghino alle ragioni della produttività e della competitività delle imprese piuttosto che viceversa. La comprensione di questo effetto della globalizzazione è ancora assai scarsa, salvo poi stupirsi delle resistenze che le politiche tendenti alla sua realizzazione incontrano in Europa, dove la cultura diffusa assegna alle ragioni umanitarie un valore assai più alto che altrove. Se, tuttavia, l'integrazione economica e finanziaria impone politiche economiche e fiscali «di destra» (a cominciare dal ridimensionamento dello Stato sociale), ciò non significa necessariamente il superamento di ogni distinzione nell'orientamento politico dei governi. Il punto politico, infatti, non sta nell'accettazione dei vincoli che discendono dall'in-tegrazione escludendo ogni possibile autonomia nelle normative economiche finanziarie, nelle logiche di consumo e di investimenti, nel ruolo delle istituzioni pubbliche. Il punto politico sta nella relazione che si stabilisce con questi vincoli. La destra se ne compiace e ne auspica un continuo rafforzamento, considerando gli effetti negativi che producono sul piano sociale come incidenti di percorso o, addirittura, come una salutare manifestazione dell'etica calvinista che vede nel successo economico e nella conseguente agiatezza il giusto premio di capacità personali. La sinistra, invece, può distinguersi proprio sul piano delle conseguenze sociali, accettando e applicando (anche perché non c'è alternativa) le regole fissate da quel legislatore so vnu inazionale e senza volto che è la globalizzazione, ma impegnandosi per evitare, o almeno per contenere, quegli effetti di lacerazione sociale, di angoscia collettiva, di sperequazione distributiva, di aumento del disadattamento che gli studi sociologici più attuali vanno individuando con crescente nitidezza nelle, realtà all'àyangu'àrdla' del liberismo econòmico, a cominciare'ovviamente dagli Stati Uniti. Nella fase più costruttiva della recente storia italiana, allo scetticismo della destra si è contrapposta la sinergia politica e sindacale delle forze progressiste nel nome di un fine alto come la partecipazione all'Europa della moneta unica. Quella sinergia può rinnovarsi nel nome di un progetto politico non meno alto come l'inserimento nell'economia globale per coglierne tutti i potenziali benefici, ma da europei, vale a dire senza perdere di vista che il rafforzamento dell'economia produttiva e il rispetto degli equilibri di finanza pubblica sono fini intermedi, da perseguire come condizione per raggiungere il fine ultimo di elevare il benessere dell'intera collettività. Se la sinistra, europea ed italiana, non si connota su un progetto del genere, non deve stupirsi se poi l'elettorato sarà spinto dalla delusione a tentare altre incerte strade. altre

Persone citate: Berlusconi, D'alema

Luoghi citati: Europa, Stati Uniti