Dall'Onu via al grande rientro di Francesco Grignetti

Dall'Onu via al grande rientro Dall'Onu via al grande rientro La Kforprotegge a stento i serbi dai profughi reportage Francesco Grignetti inviato a PEC Oli albanesi hanno fretta di tornare a casa. E l'Onu ha avviato l'operazione-rientro. Lunedì il primo autobus con il marchio Acnur (Commissariato per i rifugiati) porterà i profughi dall'Albania. Martedì dalla Macedonia. Mercoledì dal Montenegro. Finora sono tornati spontaneamente in 200 mila. Rientrano anche i primi prigionieri liberati da Belgrado: 160 kosovari sono sbarcati con due autobus direttamente nella'sede dell'Uck di Pec. Uomini scheletrici dopo sette settimane di prigionia. Hanno parlato di botte ricevute. Ma non avevano voglia di raccontare il passato. Pensavano al futuro. C'è tra gli albanesi la frenesia di ricominciare a vivere. Dall'altra parte, quella dei serbi, invece, c'è l'urgenza di mettersi in salvo perché non cessano le violenze. Il Kosovo oggi è questo. Una realtà a due facce. E l'altalena della paura tocca ai serbi. A Mitrovica, forse l'ultima cittadina con una forte comunità serba, nel settore francese, gli albanesi premono per mettere le mani sull'ospedale che è rimasto nel quartiere serbo: è dovuto intervenire il leader dell' Uck, Thaqi, per calmare la folla. A Pec, di fronte alla strisciante contropulizia etnica, gli italiani hanno ormai alzato le braccia. E' di ieri la notizia della costituzione di squadroni della morte, nell'area tra Pristina e Prizren, formati da ex membri dell'Uck per vendicarsi dei serbi. Non riuscendo a garantire la sicurezza in città, i carabinieri accompagnano i serbi al vecchio monastero ortodosso. All'ingresso c'è il metropolita Amphilokios ad accoglierli: «La situazione è gravissima. Stanno andando via anche gli ultimi. Speriamo che possano tornare tra qualche settimana». Davanti al portone del patriarcato c'è una donna furibonda che si stringe al petto la borsetta. Si chiama Radenka Jikovic, 47 anni: «Sono venuti quattro dell'Uck. Mi hanno presa per i capelli. Urlavano di andare via. Uno mi ha anche picchiato con il calcio della pistola, Li odio. Ridevano mentre uscivo di casa. E odio pure gli italiani. Quando ho chiesto aiuto, si sono messi a sorridere e mi hanno portato qui». Accanto a lei c'è un'altra donna che piange. Ducanka Pietri, 60 anni, è una serba del Montenegro. Suo marito, Michel, 71 anni, un albanese di religione cattolica, si è sparato alla tempia due giorni fa. «Era uscito in strada. Quelli dell'Uck lo hanno maltrattato. Lo insultavano perché aveva sposato una donna serba. Quando è venuto a casa, io stavo già preparando i bagaglivper scappare. "Sono vecchio e non ti posso più difendere. Scusami.", mi ha detto. E' andato sul terrazzo e si è ucciso». Dopo mezz'ora, in casa Pietri è arrivato un gruppo di guerriglieri albanesi. Hanno trovato la donna in lacrime accanto al marito morto. Ma da queste parti pietà l'è morta: hanno cacciato la donna e si sono installati loro. E' questa la reazione degli albanesi alle violenze dei mesi scorsi. Poco distante da dove è stata cacciata la signora Ducanka, è appena arrivato Nejip Berisha, 63 anni, albanese, commerciante di mobili. La sua casa, tre piani più negozio, è andata interamente distrutta. Il signor Berisha è rovinato. Dice di aver perso un milione di dollari (quasi due miliardi di lire) nel rogo. Ma non è di questo che vuole parlare. Ti prènde per un braccio e si blocca a un angolo di stradi: «Erano i primi giorni di aprile. Uà qui passava un fiume di profughi. A noi albanesi di Pec ci avrebbero cacciati dopo poco. Io ero dietro le vetrine del negozio e guardavo la gente in, fuga. A un certo punto ho visto una scena che ancora oggi non riesco a raccontare. Un gruppo di serbi ha sparato su cinque bambini. Intorno tutti erano atterriti. Poi i serbi si sono avvicinati e li hanno colpiti con le baionette. Il giorno dopo siamo scappati». Non basterebbe una enciclopedia per raccontare gli orrori del Kosovo. Tutti hanno una storia terribile da raccontare. La differenza è che gli albanesi hanno un futuro di cui ragionare. Da una macchina di grossa cilindrata scende Deshprim Harxhi, 40 anni, albanese. E un ricco uomo di affari. Veste bene, ha un orologio d'oro al polso e un passaporto americano nel taschino. Quando la situazione si era fatta calda, Harxhi si è trasferito a San Francisco con tutta la famiglia. Ieri mattina è rientrato: ha trovato il suo albergo incendiato, le case distrutte, i negozi sventrati. L'unica cosa salva e la modesta casa del padre. «Che farò? Lavorerò giorno e notte per ricostruire tutto. Speriamo che la comunità internazionale ci aiuti. Ma faremo anche senza di loro. Noi kosovari siamo gente che non ha paura della fatica. E faremo un Kosovo libero e indipendente. Io non voglio sentir parlare di Grande Albania o Piccola Albania. Solo di Kosovo». La dottoressa Arbresha Aldini, dermatologa, 40 anni circa, è affacciata in terrazza con i suoi cinque figli, il marito e la succerà. Stanno facendo le pulizie di casa. «Piego, entrate..Tappeti, parquet, mobili di gusto. Un appartamento che sembra quello di una benestante famiglia italiana. «Mi hanno portato via tutti gli elettrodomestici, dal frigorifero alla lavatrice. Ma per fortuna non hanno incendiato la casa. Quando scappammo, diedi le chiavi ai nostri vicini serbi, gli Stovic. "Se non potremo tornare, prendete voi la casa". Così in questi tre mesi ci hanno abitato loro. Sono scappati una settimana fa. Ma la casa si è salvata». Para russi all'aeroporto di Pristina, riaperto ieri con un volo militare da Mosca

Persone citate: Aldini, Berisha, Pietri, Thaqi