In Canada i Kapò del lager di Bolzano

In Canada i Kapò del lager di Bolzano Rintracciati i due ucraini ss, accusati di 14 omicidi e di torture compiute sui prigionieri In Canada i Kapò del lager di Bolzano La procura militare chiederà l'estradizione Brunella Glovara La faccia nessuno la ricorda. Tutti però hanno ancora stampati in testa quei guanti - lussuosi, di pelle nera e lucida - che loro portavano sempre. Perché non volevano sporcarsi le mani di sangue mentre picchiavano a morte gli uomini, e quando stupravano le donne, e durante gli interrogatori e le incursioni nelle baracche del lager di via Resta, a Bolzano, cinquant'anni fa. Le loro vittime li conoscevano come «Sette» e «Otto». Oggi questi soprannomi fanno sorridere, allora gli internati li temevano perché non c'era nessuna pietà per chi finiva tra quelle mani guantate di nero. Erano due «kapò», erano ucraini, indossavano la divisa delle Ss, erano feroci: di più, i prigionieri non sapevano. La procura militare di Verona ha dato loro un nome e un grado (erano luogotenenti SS) e sta per chiederne l'estradizione per poterli processare in Italia: Misha Seifert, OttoSeit. Il primo si era arruolato volontario nelle Ss, e forse anche l'altro era finito con i tedeschi così, per scelta. Di sicuro nel loro Durchgangslager - il campo di transito di Bolzano - «lavoravano» entrambi con zelo e grande scrupolo. Sono vivi, abitano in Canada. Ieri «Il Mattino di Bolzano» ha intervistato il pm veronese Vincenzo Santoro, che ha spiegato: «Sappiamo che nel campo operavano due pazzi sanguinari. Riteniamo che fossero diretti in qualche modo dai loro responsabili. Da quanto abbiamo ricostruito non si trattava di singoli scatti d'ira, ma di almeno una cinquantina di episodi di violenza efferata». Dei «responsabili» si sa tutto: il comandante del campo di Bolzano era Friederich Titho, il suo vice era Hans Haage. I carabinieri li rintracciarono solo tre anni fa. Haaghe era in Baviera, a Bad Abbach, e stava annaffiando i fiori in giardino quando si trovò i militari italiani alla porta. Qualche mese dopo è morto, novantenne, prima che gli presentassero il conto di via Resia, Dopo la guerra Titho era tornato al suo paese, vicino ad Hannover. Ma lui il carcere l'ha fatto: «Sette anni, scontati parte in Germania, parte in Italia ad Ascoli e Ancona. Il mio debito l'ho pagato», ha raccontato in una vecchia intervista. Precisando che «il debito» si riferiva ad un altro lager - Fossoli - e non Bolzano. Specificando che comunque «i testimoni esagerano sempre, forse sperando in un risarcimento economico. Perché se fossero stati crimini così terribili, ora non potrebbero raccontarli». E accusando i suoi due «kapò»: «Avevo saputo che avevano abusato sessualmente di una donna, ma questo episodio è accaduto per le strade della città, non nel campo». «Provocarono anche la morte di una giovane donna ebrea, bagnata e gettata all'aperto in pieno inverno. Ma questo episodio è già sta¬ to chiarito in un altro processo». Comunque, alla fine, Titho sottolineava che «si trattava di atti fuori dalla mia competenza». Fuori o dentro la sua competenza, quegli «atti» sono finiti nell'inchiesta voluta dal procuratore militare di Verona Bartolomeo Costantini. Il magistrato ha trovato alcuni sopravvissuti di via Resia. Uno, Enrico Pedrotti, ha raccontato l'ultimo omicidio compiuto dai due ucraini: un giovane partigiano accusato di aver rubato un pezzo di pane. «Lo uccisero sbattendogli la testa - a turno - contro il muro». Ma questo era solo l'ultimo omicidio del catalogo SeifertSeit, che ne comprende un nu mero che ormai nessuno puu precisare. La procura è riuscita a provarne quattordici. Tra questi, oltre al partigiano morto per il pane, c'è quello di una giovane donna di Verona, Augusta Manasse Voghera, e quello di sua madre Giuba. «Sette» e «Otto» violentarono la più giovane davanti alla madre. Dopo, le uccisero. Don Daniele Longhi, parroco trentino allora rappresentante De all'interno del Cln, finì nel lager di Bolzano e riuscì a uscirne: «Ho fatto quattro mesi e mezzo di isolamento. Ricordo due ragazzi di Belluno che tentarono la fuga. Li ripresero subito. Li chiusero in cella e li massacrarono di botte giorno e notte. Morirono così». Anche don Longhi ricorda l'episodio della ragazza ebrea morta di freddo, nuda, dopo tre giorni di agonia. Quando lo chiameranno al processo, andrà a raccontare assieme agli altri sopravvissuti la storia del lager di Bolzano. Oggi è in semiabbandono. Forse un giorno diventerà un museo. Tra i casi accertati l'omicidio di due donne: la più giovane violentata davanti alla madre prima della doppia esecuzione Alcuni sopravvissuti hanno raccontato l'uccisione di un partigiano che rubò del pane e di una ragazza ebrea assiderata Due immagini del campo di transito di Bolzano Da qui passarono oltre 30 mila deportati destinati ai campi di sterminio in Germania e Polonia

Persone citate: Bartolomeo Costantini, Brunella Glovara, Daniele Longhi, Enrico Pedrotti, Hans Haage, Longhi, Misha Seifert, Vincenzo Santoro