L'ODORE DELLA MORTE

L'ODORE DELLA MORTE MISSIONE ONU IN KOSOVO L'ODORE DELLA MORTE Anna Cataldi QUANDO una settimana fa, in fretta ed in furia ho preparato il bagaglio per venire in Kosovo non mi è venuto in mente di procurarmi un oggetto che avrei scoperto essere essenziale: una maschera antigas. Non per i gas delle bombe, o degli incendi, rna per le esalazioni dei cadaveri in decomposizione.«Are you lookmg for bones?», ossia state cercando le ossa? E' una delle poche frasi in inglese che i ragazzini vagolanti fra le macerie hanno imparato a dire. Lo chiedono ai militari del KFOR, lo chiedono ai fotografi di tutto il mondo che si sono precipitati qui, lo chiedono ai pochi giornalisti che si azzardano ad allontanarsi dalle basi KFOR per addentrarsi nel ginepraio pericoloso dei cento villaggi distrutti con agghiacciante metodicità dalle truppe serbe, Nei dieci anni trascorsi sono stata testimone di molte guerre, dall'Angola alla Cecenia, all' Afghanistan, al Sudan del Sud. Ho visto distruzione e morte in dosi massicce, ma quello che ho incontrato in una sola settimana qui in Kosovo ha creato in me un senso di indignazione e di disgusto più forte anche di quello che ho provato in Bosnia ed in Rwanda. La distruzione è stata sistematica, agghiacciante, bestiale. Con il fotografo James Natchwey ci alziamo alle cinque di mattina o fino a tarda sera percorriamo il Kosovo, scoprendo in ogni strada, in ogni villaggio, in ogni cascinale isolato le evidenze della stessa distruzione sistematica e pianificata. Nulla è stato risparmiato, quasi la mano del diavolo si sia manifestata in mille rivoli di fuoco che hanno raggiunto gli angoli più reconditi. Nelle case bruciate vediamo cadaveri che portano il marchio recente della violenza, anche quelli gettati frettolosamente nei campi e a malapena coperti da qualche palata di terra. Sono vecchi donne e bambini tutti uccisi nello stesso modo, con una pallottola nella nuca. Oppure, e in questo caso lo testimoniano la posizione delle ossa degli arti che appaiono come rattrappiti in un urlo, sono stati bruciati vivi. I cadaveri bruciati hanno le ossa marrone rossiccio, non bianche e sulle mani le unghie sono rimaste intatte, in quelle delle donne si riesce ancora a vedere lo smalto colorato. Anche i cadaveri bruciati esalano un fetore tremendo. «Non vi avvicinate senza maschera», ci avvertono. E in qualche modo cerchiamo di supplire con fazzoletti di carta impregnati di acqua di colonia. I parenti dei morti, i vicini dei villaggi supplicano: «Aiutateci a seppellirli, qui siamo soli, nessuno ci aiuta». Arrivano i soldati del KFOR. Si giustificano: «Cercheremo di tornare al più presto, ma non sappiano quando. Il territorio che dobbiamo pattugliare è vasto, ci sono mine ovunque, dobbiamo disarmare la gente e controllare l'evacuazione, inoltre i nostri soldati non hanno abbastanza maschere ed equipaggiamento per seppellire i morti». In pochi giorni sono rientrati in Kosovo centoquarantamila profughi albanesi, malgrado la richiesta del UNHCR di aspettare che la situazione si fosso normalizzata. E ogni giorno la carovana di carri e trattori si ingrossa come una fiumana ininterrotta. Sfilano tra i campi verdi con i papaveri e i fiordalisi ondeggianti al vento, tra i ruscelli costeggiati da pioppi fruscienti, avanzano tra zaffate di morte che ti aggrediscono in continuazione, vogliono tornare alle loro case distrutte, vogliono rifare i tetti prima che arrivi il freddo, vogliono seppellire i loro morti e soprattutto sapere chi è morto e in quale modo, vorrebbero che gli addetti del tribunale intornazionele venissero immediatamente a constatare i crimini commessi e temono che rimuovere i cadaveri possa far scomparire le provo. Ma il tribunale è lento a venire, inoltre non dispone di abbastanza personale per coprire crimini perpetrati su cosi vasta scala. Ma i morti «reclamano» una degna sepoltura e il loro odore ti insegue ovunque senza darti pace. Gli assassini sono già ora al sicuro in Serbia, dove - pensano i parenti delle vittime forse verranno anche decorati con qualche medaglia o accolti come eroi. Quaggiù chi torna corca di far ripartire la vita ricostruendo le caso e piangendo i morti. Nei villaggi si scavano tombe, ma prima di deporvi le ossa vorrebbero che qualcuno almeno testimoniasse l'evento. Così chiedono a noi di farlo. Natchwey fotografa, io rendo nomi e dati, ma non posso avvicinarmi troppo, perchè non io una maschera, Messaggero di pace Onu E

Persone citate: Anna Cataldi, Della Morte, James Natchwey

Luoghi citati: Afghanistan, Angola, Cecenia, Kosovo, Serbia, Sudan