MANHATTAN in viaggio con il morto

MANHATTAN in viaggio con il morto Il cadavere fra i passeggeri distratti: nella metropolitana di New York, sulle tracce di un fantasma MANHATTAN in viaggio con il morto LA mattina di lunedì 14 giugno, a New York, tra i passeggeri pigiati nella metropolitana c'era ieri anche il cadavere di un uomo. Morto per un attacco di cuore poco dopo essere Isalito sul vagone, ha percorso più volte Manhattan sulla linea Uno, quella che collega Wall Street con il Bronx, senza che nessuno se ne accorgesse. Solo tre ore dopo qualcuno ha cominciato a insospettirsi. «Aveva il capo appoggiato a un finestrino, teneva gli occhi chiusi, sembrava dormire come tanti passeggeri che al mattino schiacciano un pisolino durante il percorso», ha raccontato un testimone. L'uomo, vestito con eleganza, era privo di documenti, probabilmente perché qualcuno, prima di avvertire la polizia, aveva borseggiato il cadavere. Un puro fantasma, all'inizio. In seguito è stato identificato con Ignacio Mendez, 36 anni, originario dell'Ecuador. Si è saputo dove abitava, da dove tornava, come viveva. E' rimasto il mistero sulle sue estreme, incredibili ore. Il nostro inviato ha rifatto il suo viaggio nel subway, per provare a ripercorrere i suoi ultimi istanti, gli ultimi pensieri e le ultime sensazioni dell'uomo e poi quello che può essere accaduto intorno a lui mentre era già diventato un cadavere. Gabriele Romagnoli inviato a NEW YORK w- 1L fantasma scese sottoterra alle otto e mezzo del mattino. Era, come adesso mentre seguo le sue I tracce, lunedì. New York si rimetteva in moto dopo il weekend. L'ultima cosa che vide prima di essere ingoiato fu Santa Elisabetta, la prima d'America, incastrata in una nicchia fra i grattacieli di Lower Manhattan. Poi, scese all'inferno. Portava scarpe nere, jeans e maglietta gialla. In tasca aveva un pettine per domare i folti capelli neri, una moneta da venti centesimi e un gettone della metropolitana. Non gliene sarebbero serviti altri, aveva pensato: era l'ultimo viaggio, stava tornando a casa. Aveva le mani sporche di vernice e le gambe malferme. «Bevuto troppo:, disse, rivolto a se stesso, ma fiatando a pochi centimetri dal volto di un uomo in completo grigio che si allontanò rapidamente. Il fantasma infilò, dopo ripetuti tentativi, la moneta nell'apposita fessura, abbassò la sbarra con la coscia e avanzò nel girone dei dannati lavoratori. Una torma, dal capolinea della linea Uno (stazione South Ferry) diretti a Nord, dorsale Ovest di Manhattan. Capolinea: Vari Cortland Park, Bronx. La Uno non è come le altre linee che vanno al Bronx. Non è come la Sei dei portoricani (Jennifer Lopez ci ha fatto un disco), che taglia Est fino alla 125* poi attraversa veloce il ponte ed è di là. La Uno se la consuma, Manhattan, fermata dopo fermata, la scrosta, la demolisce, da Midtown a Harlem, risale in superficie, poi si rigetta sotto, in apnea, delusa dal cielo e dagli orizzonti. Non è come la Nove che salta qualche stazione se non è ora di punta. La Uno è stillicidio, erosione del tessuto urbano, sgretolamento dei volti, stanchezza, traguardo raggiunto sulle ginocchia. Il fantasma la guardò riempirsi: segretarie con le calze nere e i calzini bianchi nella borsa, vecchi con il cappello dei Knicks, donne con il rosario, uomini grigi con la cravatta rossa, caffè nei bicchieri di carta avvolti in tovaglioli macchiati, copie sgualcite del New York Post, libri di John Grisham nelle mani. Un cartello appeso sulle teste dei viaggiatori: «Poesia in movimento», offerta da una catena di librerie. Titolo: Ho chiesto a mia madre di cantare del quarantenne Li-Young Lee: «Lei cominciò e mia nonna si unì, insieme come due ragazzine». Sentì la carrozza del treno scivolare via sui binari. Guardò gli occhi dei passeggeri: o leggevano o si chiudevano. Scelse, anche lui, di abbassare le palpebre. Avvertì una stanchezza più antica dei suoi trentasei anni. Percepì un gorgo profondo quanto il mondo e la sua esistenza era un oggetto scaraventato sull'orlo. Ecuador, all'inizio. Poi America, da solo. Alle spalle, una moglie e due figli. Dodici anni di un'altra vita, da una fattoria all'altra, raccogliendo quel che c'era da raccogliere. Ultima fermata: Delaware. «Prossima fermata Cortland Street, World Trade Center», disse la voce all'altoparlante. Il fantasma non la sentì. Era già un rumore di fondo, un'eco lontana, qualcosa che si ascolta stando sott'acqua. Non vide i nuovi passeggeri salire. «Non sono mai stato a Pechino, o al Palazzo d'Estate, mai salito sulla barca di pietra a guardare la pioggia sul lago Kien Meng e i turisti scappare dall'erba». Turisti in movimento dalle Torri Gemelle ai grattacieli di Midtown, donne latine con il loro settimanale {Latina). Latino anche il fantasma. E la sua famiglia. E suo fratello Jesus che aveva comprato una casetta a Brooklyn, Sunset Park, a pochi metri dal cimitero e gli aveva pagato il viaggio dal Delaware perché lo aiutasse a ridipingerla. Un fine settimana a New York. Si erano divertiti, pure: la domenica pomeriggio avevano giocato a calcio a Prospect Park e il fantasma aveva anche segnato un gol e non aveva sentito la fatica. Non come adesso, mentre il treno correva e si mangiava numeri come un tabellone luminoso: 14,18,23,28. Strade. Gente che le va a affrontare con tatuaggi e occhiali scuri. Una cantante gospel che sale a Penn Station (34°) chiedendo la carità davanti al cartello che impone ai passeggeri «Fate elemosina, ma non qui», segue numero verde da contattare per inviare vaglia ad anonimo beneficiario. Anonimo come il fantasma, occhi chiusi, incastrato tra un viaggiatore e l'apposito sostegno, mentre sopra è Times Square, Columbus Circle, Lincoln Center, New York che finge, ride, canta. Mentre sotto comincia a sfrangiarsi, svuotarsi. Mentre i numeri salgono e il fantasma è sempre più solo, soldato del nulla in rassegna davanti a decrepiti avamposti abbandonati alla 103*, a Cathedral Parkway o alla 116", dove scendono due ragazzi con gli zainetti diretti alla Columbia University e dove il treno decide di prendere aria c sbuca a vedere depositi dei furgoni U-Haul (America in fuga da se stessa), giardini incastrati tra i casermoni di Harlem e rottami su rottami su rottami (America che cresce). S'inabissa allora e il fantasma non lo segue più. Era uno sulla Uno. Ora è nessuno sulla Uno. Veniva dall'Ecuador. Ha attraversato l'America. E' venuto a Manhattan dal Delaware per dare più colore a un mondo. Ha preso questo treno pensando fosse l'ultimo. Cosi doveva essere. Ha chiuso gli occhi. E' morto. Chi è morto? Nessuno. Quando? Chi lo sa. Dove? Sottoterra, opportunamente. Gli altri hanno continuato a salire fino alla 215" strada, quando il treno attraversa il Broadway Bridge e scavalca il fiume, lasciando Manhattan per il Bronx. Hanno ripreso a salire al capolinea di Van Cortland Park, dopo che gli omini in giallo hanno spazzato via giornali, bicchieri, lasciato solo un avanzo di umanità senza nome, incastrato fra la vita e l'apposito sostegno. Il treno è tornato indietro, ripercorrendo all'infinito il film della propria vita. La voce ha ripreso il rumore eli fondo. Il fantasma era così sott'acqua che non ha sentito più nulla: Ecuador, Delaware, Manhattan, fattorie, palizzate, palloni da calcio, donne, figli, compagni di viaggio, mendicanti e poeti: «Ma quel che amo è sentir cantare, le note come gocce d'acqua sull'acqua, entrambe le donne si misero a piangere, ma non smisero di cantare». Il treno non smise di correre, la voce di annunciare, i passeggeri di scendere, salire, leggere o cformire. Un solo uomo smise tutto. Non scese dal treno, scese dalla vita. Con un pettine in tasca per presentarsi in ordine dall'altra parte, qualunque cosa ci fosse quando la carrozza invisibile su cui lui solo era salito fosse giunta al capolinea. Con gli spiccioli per telefonare e chiedere a Jesus (suo fratello) di andarlo a riprendere nel caso l'altro mondo fosse peggiore di questo. Mai più sentito. Si sono accorti che era morto verso le undici e mezzo. Ancora non sanno spiegare come. Il treno era alla stazione della 96* strada. L'uomo che ne era sceso in silenzio, lasciando un fantasma nella pancia di New York, si chiamava Ignacio Mendez. Il giorno prima di morire aveva segnato un gol (un gran gol, sulla fiducia) e brindato (mai abbastanza) con suo fratello. Era sceso sottoterra alle otto e mezzo, aveva visto il treno riempirsi. Poi avvertì una stanchezza più antica dei suoi 36 anni Ignacio Mendez iniziò il suo ultimo viaggio sulla linea Uno della metropoliwnancwyòrkese il mattino di lunedì 14 giugno: infilò la moneta nella fessura, abbassò la sbarra con la coscia e avanzò nel girone dei dannati lavoratori Il vagone cominciò a riempirsi: segretarie con le calze nere e i calzini bianchi nella borsa, vecchi con il cappello dei Knicks, uomini grigi con la cravatta rossa, passeggeri immersi nella lettura del New York Post o dei libri di Grisham La Uno non e come le altre linee che vanno al Bronx. Non è veloce come la Sei dei portoricani, non salta le stazioni come fa la Nove senonècradi punta. La Uno è stillicidio, erosione del tessuto urbano, stanchezza, traguardo raggiunto sulle ginocchia i NEW JERSEY ::::^vMANHAHAN /y BRIDGE -BROOKLYN —.-l^U BRIDGE