Amici serbi, perché?

Amici serbi, perché? La tragedia kosovara raccontata da un giovane scrittore: convivevamo in pace, poi tutto è cambiato Amici serbi, perché? 4 buoni vicini rubavano nelle nostre case » Aibatros Re.xhaj, 24 arni, giornalista e scrittore, kosovaro di Prizren, racconta il recente passato e il presente del suo Paese in un irtstam book scrino in forma di Lettera a un amico italiano dal Kosovo, in uscita da Rizzoli. Anticipiamo uno stralcio dal capitolo signnfcarrvamerrte intitolato «Che fine hanno fatto inostri amici serbi?» Aibatros Rexhaj ril I E' chi dice che anche prima I 7 dell'avvento di Milosevic non esistesse amicizia tra II noi albanesi e i serbi. QueA* I sto e del tutto falso. Era l'assetto stesso che Tito aveva dato al paese a imporre la convivenza pacifica tra noi e loro. (...). I villaggi del Kosovo erano etnicamente puri, mentre nella città erano presenti tutte le etnie, sicché serbi e albanesi vivevano uno accanto all'altro senza problemi; è vero che i matrimoni misti erano rari ma ciò dipendeva unicamente dal fatto che i riti e le tradizioni slavo-ortodosse erano completamente diversi da quelli kosovari: la lingua era diversa, la mentalità era diversa e la religione era diversa. Io ho avuto compagni di giochi sia serbi che albanesi, e i primi otto anni della mia vita li ho trascorsi in una delle poche vie di Prizren dove i serbi costituivano la maggioranza. (...) Le cose sono cambiate il giorno in cui vidi il cancello del ginnasio che lasciava entrare gli studenti serbi ma lasciava fuori quelli albanesi. Provai una sensazione che non sapevo definire. All'uscita di scuola i miei ex compagni dicevano che la scuola sembrava vuota senza di noi. Ma, tempo un mese, ci dimenticarono completamente, Era chiaro che la scuola non gli sembrava più così vuota. Dopo la separazione scolastica ci siamo divisi anche i locali di ritrovo. A Prizren ésistonolòcali serbi elocali albanesi uno accanto all'altro. Ricor- si apriva in mezzo al «Delfini» e al ero», entrambi serbi. Il fatto è ié quando i locali si riempivano, i ragazzi serbi si mescolavano a quelli albanesi, tanto che diventava francamente difficile distinguerli. Quanto alla musica che ascoltavamo, quella era semplicemente straniera - né serba né albanese. E quella la ascoltavamo tutti. Ma anche questo aspetto della nostra vita lentamente stava cambiando. I quartieri venivano disegnati e divisi con sempre maggior nettezza, e in maniera sempre più definitiva. I nuovi confini - invisibili ma estremamente reali - venivano varcati sempre più di rado. Finché anche la musica cambiò: al posto di quella che piaceva ai giovani, si sentivano solo marce patriottiche. Erano i giorni in cui la polizia cominciava a rispondere alle nostre proteste per la scuola negata e per il iavoro perso con i bastoni e i mitra. Una sottile linea russa ci divideva per sempre. Ormai era difficile peremo salutare un amico. E, quello che è ancora più grave, la voglia di farlo djyintiiwdi.gic^in giorno, y^,,,. Da un apertura sul tetto di casa mia osservavo con il binocolo i movimenti dei soldati che si erano stabiliti presso la scuola elementare «17 Novembre», quella che frequentavo da bambino. (...) Vedevo soldati - che forse non erano tali, dal momento che indossavano divise mai viste uscire da una casa che avevano appena saccheggiato. Li vedevo portare via gli oggetti rubati. Non era ancora sera, ma per strada c'erano solo loro. Un aspetto particolarmente spiacevole della questione era che ad assisterli e dirigerli nella loro opera di saccheggio erano i miei vicini di casa. E' terribile, tutto questo. Sì, perché potevo capire i soldati, i paramilitari, i poliziotti - gente venuta da diverse regioni della Serbia. Potevo capire che loro non provassero niente a spogliare degli sconosciuti di tutti i loro averi, ma vedere far parte della banda gente che fino al giorno prima aveva vissuto nella tua stessa strada, be', questo era veramente intollerabile.!...) Prima dell'alba, arrivò la notizia che mio cugino Sad ik era stato caccia,.tq insjerriri.a tutta la famiglia, a.che_, ora si trovava in Albania. 11 fatto sarebbe avvenuto la sera prima, intorno alle undici e mezzo. Era la prima volta che qualcuno di Prizren veniva preso di notte, tant'è che nessuno di noi credette alla notizia. Pensavamo fosse una delle tante voci che circolavano in quei giorni. Mio padre però voleva vederci chiaro, così partì diretto alla casa di Sadik. Tornò dopo mezz'ora, con una faccia da funerale. Si sedette e chiese un bicchiere d'acqua. Aspettai con pazienza che si decidesse a parlare. Poi ci raccontò che Sadik la sera prima era andato nel rifugio con i suoi. Qui era arrivata la polizia che. senza nemmeno concedergli di portare con sé qualcosa, lo aveva cacciato con tutta la famiglia dal Kosovo. Sadik non era potuto passare nemmeno da casa. Sulla porta di casa Sadik mio padre aveva trovato una scritta. «Dragan Kovac». Era il nome del nuovo padrone di casa. Quando aveva bussato, la porta gli era stata aperta da un serbo. Era stato un amico di Sadik a guidare la polizia a casa sua. Ora, nella casa di Sadik, ci aveva sistemar to il fratello. Alcuni dipendenti albanesi dell'ospedale raccontarono degli strani movimenti subiti dai cadaveri delle persone uccise in quel periodo nei villaggi vicini. All'inizio le salme venivano messe nell'obitorio ma, dato che il numero dei morti aumentava di giorno in giorno (e dato che l'obitorio serviva anzitutto per i morti serbi), i cadaveri vennero trasportati nel grande magazzino frigorifero della città dove prima veniva conservata la carne. La faccenda era strana, dal momento die i serbi proibiscono la sepoltura delle persone uccise, tanto che, quando scoprivano che un mono iuninazzato era stato sepolto, andavano a dissotterrarlo. In quasi tutte le zone dove erano passati, i serbi, aiutati dagli zingari del luogo, si dettero un gran da fare per dissotterrare i cadaveri delle persone che avevano massacrato. Sotto l'attento coordinamento dell'esercito, i morti venivano caricati su piccoli camion e portati via, quasi sempre nottetempo. Testimonianze riferiscono che questi camion entrassero pieni nel magazzino frigorifero e ..ncuscisserovuoti. ... . Già, ma poi? Che fine facevano tutti quei corpi?!...) Cercai di seguire lo spostamento dei cadaveri dal magazzino alla fabbrica, ma era molto difficile superare lo sbarramento della polizia. Sentivo voci di gente che diceva di aver visto e sentito. Ma si trattava sempre di voci, e magari, qualcuno potrebbe dire, di voci interessate. Le uniche informazioni degne di fede avrebbero potuto darle i serbi - che naturalmente non avrebbero detto una parola a riguardo. Oppure gli zingari. Ma avrebbero parlato, loro, dopo che i serbi li avevano ormai nominati consulenti del loro corpo di «Protezione civile»? Da loro, mio cognato riuscì a ottenere preziose informazioni. Li conosceva piuttosto bene per averci vissuto insieme. Gli dissero che, ogni notte, zingari con indosso divise gialle aiutavano i serbi a far sparire i cadaveri, lo fui l'unico cui mio cognato confidò quanto sapeva. Entrambi tenemmo il segreto per paura che una parola in più potesse costarci la vita. Non volevamo finire come il conducente del camion che trasportava i cadaveri, che ne aveva viste di tutti i colori prima di riuscire a mettersi in salvo in Albania. In quei giorni un cadavere valeva duemila marchi. Era questa infatti la cifra che mio cugino Shaip aveva pagato per riavere la salma di suo figlio Fatmir, rimasto ucciso a Korisha il primo giorno dei bombardamenti. 1 corpi degli altri ammazzati a Korisha e chissà in quanti altri villaggi, quasi nello stesso momento in cui si riattivarono le ciminiere della Famipa, furono bruciati nell'inceneritore della città. Mio padre fu testimone diretto di come i cadaveri venissero sistemati su una porzione di terreno spianato dalle ruspe e quindi cosparsi di benzina e bruciati insieme all'immondizia. 41 mistero dei cadaveri scomparsi: mio padre li ha visti bruciare insieme con l'immondizia» «Mio cugino Sadikfu cacciato di notte con la sua famiglia Era stato un conoscente a condurre la polizia da lui» Un'immagine di Prizren dopo i recenti bombardamenti. Mentre I villaggi del Kosovo, al tempo di Tito, erano etnicamente puri, le cittì vedevano una compresenza di tutte le etnie, anche se i matrimoni misti sono sempre stati rari Aibatros Rexhaj: dopo sei settimane di guerra è riuscito a passare il confine albanese con la giovanissima moglie lima. Ora è a Tirana, ospite di amici, e attende con ansia di poter tornare nel suo Paese

Luoghi citati: Albania, Kosovo, Serbia, Tirana