LA FINE DELLE VILTÀ OCCIDENTALI di Enzo Bettiza

LA FINE DELLE VILTÀ OCCIDENTALI CUNTONEMEOSEVIC LA FINE DELLE VILTÀ OCCIDENTALI Enzo Bettiza 1simbolismi in politica hanno un loro peso specifico. Che Bill Clinton, capo della nazione guida della coalizione vincitrice, abbia deciso di chiudere l'ultimo conflitto balcanico lanciando proprio da Lubiana un monito contro il «potere assassino» di Milosevic e invitando i serbi a «scegliere la via slovena», è un fatto che racchiude in sé più d'un significato degno di riflessione autocritica per l'intero Occidente. La Slovenia, oggi di fatto associata all'Unione Europea, fu nel 1991 la prima vittima delle aggressioni fomentate dall'espansionismo granserbo ai danni delle repubbliche federate dell'ex Jugoslavia. Fu anche la prima repubblica a proclamarsi indipendente, con un compatto referendum popolare, e la prima ad essere riconosciuta come Stato sovrano dalla comunità internazionale. Si ricorderanno le preoccupazioni ipocrite che suscitò allora quella legittima secessione dal centralismo totalnazionalistico di Belgrado. Perfino il segretario di Stato del tempo, il repubblicano James Baker, favorevole al mantenimento di una Jugoslavia serbocentrica, criticò l'indipendentismo di sloveni e croati annunciando che il suo Paese «non avrebbe fatto morire neppure un cane americano nelle faide balcaniche». Più elegantemente già Bismarck diceva che «i Balcani non valgono le ossa di un singolo granatiere di Pomerania». Col suo forte discorso di Lubiana, pieno di lodi per la democrazia slovena favorita dall'ex comunista Kucan, e saturo di biasimi per la tirannia imposta dal recidivo comunista Milosevic ai serbi, Clinton ha voltato definitivamente la pagina nera delle viltà occidentali dal crollo del Muro in poi: l'ostilità più o meno dichiarata per le nuove sovranità balcaniche, combinata con indulgenze e compromessi nei confronti della Serbia miloseviciana. Oggi è l'indipendenza la carta su cui punta la politica balcanica degli Stati Uniti: già pienamente consolidata in Slovenia e Croazia, essa, secondo Washington, dovrà essere ristrutturata e puntellata in Bosnia, rafforzata in Macedonia, ed infine estesa al Kosovo e al Montenegro. La Serbia, colpevole, di dieci anni di sfaceli e massacri, perdendo l'appendice kosovara e il satellite montenegrino, dovrà rinunciare al mito della potenza regionale e vedersi retrocessa alle dimensioni monoetniche precedenti le guerre di conquista balcaniche del 1912-' 13. Sarà questa la sostanza politica del rinnovato disegno postjugoslavo che Clinton, ispirandosi al congresso di Berlino del 1878, imporrà all'imminente congresso di Sarajevo fissato con l'esclusione della Serbia per il luglio 1999. E l'Europa? La recalcitrante Europa, che senza l'America non sarebbe stata in grado di togliere una sola castagna dalla fornace balcanica, non potrà fare altro che adeguarsi e finalmente capire chela voce grossa senza esercito grosso e senza diplomazia grossa è destinata soltanto al clamore nel deserto. La parità con l'America non passa per l'euro; può passare, semmai, per quel «secondo pilastro» dell'Alleanza atlantica tanto raccomandato a suo tempo agli europei dall'inascoltato Jean Monnet. La guerra nel Kosovo ha cambiato per la seconda volta la carta geopolitica del continente dopo il 1989. Mentre il G8 sostituisce l'inceppato potere mondiale del Consiglio di sicurezza, la dissoluzione definitiva della Jugoslavia impone, soprattutto agli europei, una maggiore consapevolezza della scarsità attuale e della consistenza virtuale della loro Unione incompiuta.

Persone citate: Bill Clinton, Bismarck, Clinton, James Baker, Jean Monnet, Kucan, Milosevic