E il Carroccio lo implora: non lasciarci

E il Carroccio lo implora: non lasciarci a ptSBiscrro sul senàtur «lui e' la nostra guida» E il Carroccio lo implora: non lasciarci Le aHmissioni respinte comma maggioranza bulgara reportage Fabio Potetti inviato a PONTIDA PADANIA o morte», c'è scritto sullo striscione bianco, in faccia alla spianata di Pontida, a questi diecimila in camicia verde, venuti qui a leccarsi la ferite dopo la.sventola europea, a dare fiducia a un segretario che ha messola sua carica in gioco con un referendum e a regolare qualche conto interno. Guardando al futuro, incerto come questo angolo di prato, comperato con le sottoscrizioni ma non ancora del tutto sottratto alle betoniere tedesche, che sognano già l'ipermercato. «La Padania ed sarà, perché noi siamo dalla parte del giusto», fa professione di fede Mariella Pintus di Torino. «Se per sopravvivere dobbiamo fare delle alleanze politiche facciamole, ma non vendiamo la nostra idéologia», non arretra la sua amica, Graziella Tedesco da Moncalieri, mentre dal palco il segretario del Piemonte Domenico Cornino difende gli apparentamenti in Piemonte, quel riavvicinamente al Polo che non piace alla platea. Almeno a giudicare dai fischi, dalle urla secessione, secessione, da qualche vattene sibilato. Ma si sapeva, che questa undicesima volta a Pontida non sarebbe stata-come tutte le altre. «Chi vuole fare il partito secessionista vada fuori dai coglioni...», si difende Cornino. «Non possiamo rimanere in frigorifero, tenere congelati i nostri voti...», insiste nella realpolitik, contro gli umori della base, contro l'incazzatura di Leonida Bianchi, arrivata qui da Carrara per dire d'un fiato che «Bossi ci deve dare una bandiera, i leghisti che non hanno votato sono dei traditori e fanno affari con la mafia e con Berlusconi». «A uno del partito di DoU'Utri, non mi viene di dargli il voto al ballottaggio», ammette dal palco Marco Formentini. Mentre Mario Borghezio, primo dei non eletti a Strasburgo, picchia sulla facile retorica, sulla Padania, sulla terra di libertà, sulle «merdacce di Roma che ci indeboliscono». Fino alla frase ad effetto, con cui raccoglie gli ultimi applausi: «Se qualcuno acri ve ancora secessione sotto alla casa del Prefetto, dite pure che glielo ho consigliato io». Van bene sempre, certi discorsi in camicia verde. Scaldano gli animi, tranquillizzano quello che si presenta in kilt sognando la Scozia di Braveheart e rassicurano chi si è sciroppato mille chilometri in una notte. Come Ugo Olivetti, nato in Cadore, emigrato in Germania a vendere gelati, planato qui con la Volkswagen solo per dire: «Abbiamo superato lo choc. Bossi non deve dimettersi. Deve scuotere la gente. Anche quei dirigenti che si sono addormentati». Altro cho scossa, arriva dal palco. Bossi promette che il partito deve tornare ventre a terra, che certi dirigenti si sono abituati alla vita comoda, che non è più il momento delle bistecche morbide e delle poltrone sicure. E in diecimila, lo applaudono con il masochismo e la certezza di chi sa che senza di lui, non si va da nessuna parte. Neanche qui a Pontida, dove l'aria da gita rimane solo nelle salamoile, nel tendone bianco con i tavoli del ristorante self service, nelle unghie laccate di verde di qualche aspirante miss Padania, nella barba in tinta di quallo che c'è sempre, nell'elmo e nella corazza di plastica, di qualche estroso che sogna di assomigliare a improbabili Celti dalla spada sguainata. Ma nel prato dei giuramenti, si consuma un altro rito- Quello dell'urna, dove depositare il foglietto verde con il sì o il no alle dimissioni di Umberto Bossi. «Dico sì, perché le dimissioni sui prati non mi piacciono. Sono per Bossi, ma ragionare sull'onda di una batosta non va bene», motiva il suo assenso un consigliere comunale di Stradella, provincia di Pavia, che solo dopo una certa insistenza, dice di chiamarsi Franco Bocci. «Però lo metta, che sono per Bossi...», sottolinea, temendo chissà quali ritorsioni. «Voto sì alle sue dimissioni, perché l'immagine di Bossi è oramai deteriorata. Se bisogna tornare alla politica, allora è meglio un Maroni», guarda all'immagine Franco Barlassmi, della provincia di Milano. Ma loro, si capisce, so- no due mosche bianche. E il rito del referendum, finisce esattamente come tutti prevedevano. Con uno sfracello di no, oltre il 90 per cento, anche se numeri procisi non ce ne sono, che tanto non servono. «Bossi è il perno. Deve rimanere e al congresso, insieme a lui alla guida, discuteremo la linea politica», giura un signore in camicia verde, mentre sventola il bandierone con l'Alberto da Giussano. «Dobbiamo imparare ad essere più cattivi. Abbiamo contro la Rai, i giornali e i mafiosi della politica», fa l'elenco. Senza dubitare della vittoria finale, vi- sto che a Olgiate Comasco, come assicura, la Lega non ha perso un voto. «Se avete amici a Bergamo, qualche parente, va bene anche un'ex morosa, ricordategli di domenica prossima...», distribuisce santini per il ballottaggio, un sostenitore locale di Giovanni Cappelluzzo, il candidato alla Provincia che ha scritto un libro e aperto un sito Internet, per illustrare i suoi programmi «con le attuaU regole del gioco, pochi soldi e pochi poteri». Dal palco il segretario del Trentino Alto Adige promette che è pronto a dimettersi pure lui, ma non gliene frega niente a nessuno. Rosy Mauro del Sinpa, il sindacato padano, se la prende con «la Triplice che sta rovinando le famiglie a furia di togliere soldi agli operai». Francesco Tirolli, responsabile dello Sport padano, ammette di essere emozionato. Ci pensano i suoi, a distribuire inviti a biciclettate, camminate e arrampicate sotto al Sole delle Alpi, nel senso della rivista. I gadget con il verde padano, sono (nielli di sempre. Roberto Calderoli, segretario lombardo, da una parte ammonisce a non fare gli apparentamenti «perché solo quando rilanciamo l'indipendenza siamo premiati dal voto, quando facciamo i moderati siamo penalizzati» e dall'altra invita a diffidare dei venditori di panini a lato della provinciale, «che non sono nemmeno leghisti». E nessuno si accorge, dell assenza di Vito Gnutti. ex ministro dell'Industria al governo Berlusconi, tra i più critici con la gestione del movimento, dopo la sberla elettorale. «Ma Berlusconi ha vinto col trucco, comperando i voti. Un milione a testa, ba dato ai monzesi», giura una signora fiduciosa delle immense fortune economiche del Cavaliere e incazzata con il mondo. «I giornalisti non scrivono la verità. DoU'Utri è un mafioso. La Bonino vuole l'eutanasia e la droga libera», dice mettendo insieme tutto e il contrario di tutto, sicura solo dell'avvenire della Lega, elezioni o non elezioni, ballottaggi o non ballottaggi. E allora va a finire che gli unici davvero sereni sulla spianata di Pontida sono Silvia Brunelli e Walter Broda, 22 anni lei, 24 lui, entrambi da Arco re. Appena dopo il comizio di Bossi, insieme ad altre quarantasei coppie, vanno sul palco per una promessa d'amore, per il rito matrimoniale padano, sancito dal doppio braccialetto di plastica e dal bouquet da gettare dopo il si, come prevede la cerimonia insieme alla firma sul Registro delle unioni padane, rilegato in pelle. «Stiamo insieme da sei anni, ed piaceva questo rito, magari tra due anni ci sposiamo veramente, la politica non c'entra», assicura Silvia, camicia bianca come le scarpe da tennis, tra i capelli un nastro verde. «No che non è stato diffìcile convincerlo...», dice con un sorriso, in alto il cuore. Più dei diecimila che si son rosi il fegato alle elezioni, più dei free climbers che, ultima sfida padana, scalano imbracati la parete di legno fino al bandierone verde. Comino (contestato ma difeso dal capo) ribadisce le intese col Polo in Piemonte «Chi vuole fare il partito secessionista vada fuori dai c...» Gli irriducibili «La Padania ci sarà perché noi siamo dalla parte dèi giusto»