Ma il generale non sarà ostaggio dei colonnelli

Ma il generale non sarà ostaggio dei colonnelli ..... Ma il generale non sarà ostaggio dei colonnelli retroscena ROMA Mk due metri di distanza o poifl& co più l'oratore di turno «Tt»parla e si sbraccia ma lui, il leader dimissionario, ascolta distrattamente il discorso, intento com'è a sfogliare con avido interesse i dispacci di agenzia che gli vengono recapitati sul palco. Non alza lo sguardo mentre l'oratore di turno recita la querula litania del «non ci lasciare». Non applaude alla fine dell'intervento. Non accenna nemmeno a un gesto di saluto quando l'oratore di turno, fedele a una consuetudine congressuale, a discorso concluso cerca disperatamente la stretta di mano. E pensare che sfilano davanti al dimissionario Gianfranco Fini amici e sodali di una vita, da Ignazio La Russa a Giulio Maceratini, da Maurizio Gasparri ad Adolfo Urso. Il capo dimissionario sorride soltanto in un paio di sanguigni passaggi del discorso di Francesco Storace, con il quale Fini ha un feeling emotivo che fa schiattare d'invidia gli altri «colonnelli». Ma è solo per sciogliere un po' la tensione. Perché oggi Fini è cosi infuriato con la sua creatura che vorrebbe vederla umiliata a chiedergli scusa. Altro che dimissioni «finte». «Non immaginavo», dice Gasparri. «Quando l'ho sentito non mi ha detto niènte», dice Storace. «Dopo la scenataccia dell'altro giorno nella sua stanza, pensavo che non sarebbe andato fino in fondo», dice Maceratini. E invece Fini vuole andare fino in fondo. Dopo che ha annunciato le dimissioni e i colonnelli cercavano di parare il colpo, i sottufficiali, i quadri dirigenti di seconda fila si chiedevano increduli e sgomenti: «Ma fa sul serio?». Fa sul serio, fa sul serio. Il fatto è che una domanda così («Fa sul serio?») dovrebbe irritare chi in qualche modo viene sospettato di recitare una parte, di fare, come si dice, la mossa, di scatenare la mozione degli affetti per poi dire che, sì, tutto è chiarito, le dimissioni rientrano e amiamoci più di prima. E invece quella domanda a Fini, perversamente, pia- ce: perché ristabilisce una distanza, perché riconosce una sovranità assoluta e meondizionata precedentemente messa in discussione, perché ricrea attorno al leader un potere carismatico offuscato e dimostra che il partito senza quel leader non è niente, è polvere, pulviscolo, termitaio impazzito. Decidere se tornare o non tornare è la riconquista di un potere incrinato: si torna solo se il partito fa atto di sottomissione e consegna al capo tutto intero il mazzo di chiavi. Altrimenti se la vedano da soli. Per questo Fini ha chiesto al partito e ai suoi colonnelli di motivare la loro intatta «fiducia» nel leader corrucciato dopo la disfatta elettorale e l'inequivocabile fallimento dell'operazione Elefante. Per questo Fini chiede di «non fare come gli struzzi» e di non far fìnta di non vedere che è finito il carburante della «fase propulsiva» di Alleanza nazionale, di non vedere che la contesa sulla leadership nel Polo è finita con la sconfitta delle «primarie» unilateralmente indette da Alleanza nazionale proprio mentre Forza Italia era sul punto di surclassare il suo recalcitrante alleato. Per questo Fini, percepito il tenore, lo stile, i contenuti degli interventi che si sono susseguiti, ha visto progressivamente crescere la sua ira, si è sentito più solo di prima, ha avvertito un'irritante esibizione di inadeguatezza messa in mostra da un gruppo dirigente che sciorinava i suoi discorsi dal palco dividendosi in due tronconi (sempre gli stessi e sempre con gli stessi nomi e con le stesse facce): ciucilo più «polista» che proclama eterna devozione e illimitata fiducia al laeder dimissionario ma intanto gli chiede di sconfessare l'alleanza con Segni, e quello più «so. ciale» che, ugualmente, proclama eterna devozione e illimitata fiducia al leader dimissionario, ma intanto gli chiede di non farsi ingabbiare da chi chiede la sconfessione dell'alleanza con Segni. E' naturale che, incassate con irritazione le espressioni di eterna devozione e illimitata fiducia, il leader dimissionario sia sempre più convinto di ondare «sul serio» fino in fondo, di confermare le dimissioni e di non accettare di fare l'ostaggio di chicchessia, malgrado ostentata devozioni. Perciò lo psicodramma che agita e consuma Alleanza nazionale dopo la sconfitta del 13 giugno non è una rappresentazione insincera e perciò dà ieri molti «colonnelli» in cuor loro tremano, nell'attesa che il generalissimo Fini disponga come crede: se tornare e a quali condizioni, con quale linea e perché. Ma questo rapporto di totale dipendenza nei confronti del leader che Fini ha intenzione di mettere in mostra impietosamente, fa però toccare con mano la micidiale contraddizione che Alleanza nazionale porta in seno: un contrasto tra la radicalità dei cambiamenti che hanno fatto giocare al partito finalmente «sdoganato» un ruolo determinante nella politica nazionale e la sostanziale immobilità (se si eccettuano rari innesti, anche se prestigiosi come quello di Domenico Fisichella) di un gruppo dirigente, di un apparato, di una nomenklatura, di una struttura che è rimasta nei suoi tratti sostanziali quella del vecchio Movimento sociale italiano o meglio, per maggiore precisione anagrafica, dei gruppi giovanili del vecchio Movimento sociale italiano. Contraddizione che non appare granché esplosiva nei tempi buoni, per di più trascinati da un alleato travolgente come per Alleanza nazionale à stato Silvio Berlusconi. Ma che in tempi di vacche magre, quando il consenso appare più difficile e il mondo «che conta» sembra guardare dall'altra parte, può diventare un handicap micidiale, rischia di moltiplicare frustrazioni o peggio logiche da piccolo gruppo, da conventicola di reduci, da amici dell'adolescenza che ricordano con rimpianto e nostalgia i tempi «eroici» delle sezioni. E' esattamente la «mozione degli affetti» che Gianfranco Fini ha con una certa ruvidezza preventivamente rifiutato e che invece in molti interventi (a cominciare da quello di Ignazio La Russa) è riaffiorata accrescendo l'arrabbiatura del leader dimissionario e sempre più corrucciato. Che stavolta «fa sul serio», anche perché non vorrebbe mai più provare in politica una delusione tanto cocente come quella di domenica. Li ANBME m AN

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