Kadaré e i fantasmi del Kosovo una crudele maledizione del sangue di Silvia Ronchey
Kadaré e i fantasmi del Kosovo una crudele maledizione del sangue Kadaré e i fantasmi del Kosovo una crudele maledizione del sangue Silvia Ronchey SMAIL Kadaré è, come quasi tutti i geni del nostro secolo, un intellettuale scomodo. Da sempre scrive libri solo apparentemente ambientati nel passato balcanico, descrivendo guerre medievali, come quella contro i turchi, o recenti, come quella contro italiani e tedeschi, in capolavori come La città ài pietra o i Tamburi della pioggia. In realta, come il suo Generale dell'armata morta, conta gli scheletri di mai terminati conflitti. Come Kadaré tranquilla¬ mente dichiara, non è la crudeltà delle guerre, antiche o presenti, che vuole denunciare, ma quella insita nel suo stesso popolo: «Gli albanesi hanno sempre avuto il gusto di uccidere o di farsi uccidere», diceva il suo Generale. La «strana decisione» di lasciare il sangue e le viscere del sultano nella terra cristiana del Kosovo e di fare inumare il resto del corpo r>°lla capitale ottomana ha un senso preciso. I turchi hanno voluto, bagnando questa pianura con il sangue del loro sovrano, al tempo stesso benedirla e maledirla, imprimerle un senso, un destino, come si direbbe oggi un «codice». Con queste parole profetiche, che s'immaginano scritte dall'Inviato Segreto di Sua Santità nella pianura del Kosovo dopo la terribile battaglia del «campo dei corvi» nel 1389, si conclude il primo dei Tre canti funebri per il Kosovo di Kadaré, il pamphlet storicopolitico già pubblicato con poco clamore in Francia nel 1998, che oggi, con l'urgere dell'attualità, esce in Italia per i tipi di Longanesi (da venerdì in libreria). E' fatto pressoché normale nella grande penisola, si legge proprio all'inizio del libro, che dopo speranze di pace scoppino d'improvviso le ostilità. Come non pensare a Rambouillet? Il fatto stesso che già tre anni fa questi apologhi siano stati scritti conferma l'esistenza di uno stato di guerra annunciata fin dalla caduta del regime di Enver Oxha, ma di fatto rimossa. al di fuori dell'opinione pubblica albanese, in patria o in esilio. E' forse anche questo un esito della misteriosa maledizione di sangue, che nei Tre canti funebri per il Kosovo trova una precisa ascissa e ordinata di tempo e luogo, che coincide con l'aprirsi di quella falla etnica, di quell'ingorgarsi di modi di conflitto nuovi e abissalmente estranei, che se gnò l'effrazione turca della frontiera fra Asia e Europa, presidiata sino alla fine del medioevo dal grande impero romano-bizantino. «Eh, Bisanzio! Bisanzio! Non ci resta che piangere, fratello», mormorano nelle taverne gli antichi kossovari evocati da Kadaré. E' questo fantasma che aleggia sui Balcani il vero protagonista dei suoi libri. «Gli albanesi hanno sempre avuto il gusto di uccidere odi farsi uccidere» denuncia lo scrittore Isrnail Kadaré Tre canti funebri per il Kosovo traduzione di Francesco Bruno Longanesi, Il2pp., lire 18.000
Persone citate: Enver Oxha, Francesco Bruno, Longanesi
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