La paura che Fini molli davvero di Fabio Martini
La paura che Fini molli davvero OGGI l& DIREZIONE DISCUTERÀ' LE DIMISSIONI DEL PRESIDENTE La paura che Fini molli davvero Ifedelissimi temono di restare senza leader Fabio Martini ROMA E RA l'alba del 14 dicembre 1987, nella bolgia di un albergone di Sorrento, tra saluti romani, urla belluine («Venduto!») e l'Inno a Roma, Gianfranco Fini viene eletto segretario del Msi. Il vecchio Almirantc lo abbraccia e si commuove per un successore di appena 35 anni. Per la destra italiana non è poi una gran novità: Benito Mussolini aveva 39 anni quando prese la Suida del governo, Almirante iventò segretario del Msi a 33. Da quella mattina di dicembre sono trascorsi dodici anni, Gianfranco Fini si avvicina ai 50 e nel frattempo è diventato il leader di più lunga durata, nettamente il più "longevo" tra i segretari di partito. La sorpresa, lo choc, la novità delle ultime ore nel mondo ex missino è che per la prima volta si è incrinata una leadership che sembrava a vita. Due giorni fa Fini ha presentato lui stesso le dimissioni, poi le ha ritirate, ma chi lo conosce sa che quel gesto non è stata soltanto una sceneggiata per incassare una nuova fiducia. E da 48 ore, senza dirlo ad alta voce, gli amici di Fini vivono nel dubbio che «Gianfranco possa mollare per davvero». Amici di una vita come Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri se lo sono ripetuti anche ieri: «Bisognerà aggiustare la linea politica, ma attenzione a non spingere troppo...». Uno come Teodoro Buontempo, che 25 anni fa di Fini ò stato il capo e ne conosce la psicologia, conferma: «Non è la prima volta che Fini vive serie defaillancespsisologiche e in queste ore il timore che possa mollare è più diffuso di quanto non appaia...». Certo, i colonnelli di An sanno che assai difficilmente il loro capo farà il Cincinnato, sono atterriti alla sola idea («Fini deve restare il leader», dice Maurizio Gasparri), ma per la prima volta il carisma del capo non è più indiscusso. E davanti ad un Fini che insiste nel patto con Segni, persino un personaggio di proverbiale prudenza come il professor Domenico Fisichella dice: «Se l'accordo con Segni non fosse considerato soltanto un episodio, si porrebbero seri problemi per il futuro...». Anche se Firn insistesse? «Lo valuteremo». E' pur vero che in queste ore i peones di An si attardano ancora in primordiali scaramanzie su Segni che porta iella («Io quando parlo di lui, tocco sempre questo...», dice il deputato romano Antonio Mazzzochi, tirando fuori un cornetto d'oro). O in grevi doppi sensi sulla proboscide dell'Elefantino e i supporter di Segni dentro An. Ma ì riti scaramantici e goliardici non cancellano i due choc di queste ore: An ha scoperto di poter tornare alle percentuali del Msi e quanto a Fini, al mito della sua "infallibilità", non ci crede più nessuno. La strìscia di sconfitte messa in fila dal capo di An è eloquente e un avversario di Fini come Buontempo si può concedere lo sfizio di elencarle senza commenti coloriti: «Nel 1996 Fini trascina Berlusconi alle elezioni anticipate e il Polo esce sconfitto. Nel 1997 An perde seccamente a Roma e a Napoli, Fini manda a casa i colonnelli, si autoassolve, ma tre mesi dopo li reintegra tutti. Nel 1999 Fini sposa il referendum, va in tv e dice quel che dice sul nuovo Capo dello Stato, ma poi il quorum non c'è. Da una sera all'altra impone l'accordo con l'Elefante e oggi An è sotto il 12,5% cui si attestò l'ultimo Msi nel 1994». Ma Buontempo è uno dei pochissimi a poter criticare Fini perchè negli ultimi anni An ha deciso tutto o quasi all'unanimità. In base al patto tacito che ha governato il partito: la classe dirìgente di estrazione missina ha voluto mantenere il potere interno e in cambio, come sostiene il professor Piero Ignazi, il più autorevole studioso della destra italiana, «a Fini è stata lasciata mano libera nell'interpretare la volontà collettiva del partito grazie alle sue indubbie capacità comunicative e all'evidente buon livello di professionismo politico». E sugli errori di Fini, anche i suoi vecchi amici non ci vanno leggeri: «Se si sbaglia - dice Maurizio Gasparri - bisogna avere l'umiltà di riconoscerlo. Per dirne una: sulla fecondo'azione assistita non si può proclamare "Gli embrioni da impiantare non siano più di tre I" e poi ingaggiare Marco Taradash. La verità è che non biso- gna avere fretta, non dimenticare che la politica di Tatarella era quella dell'attesa...». Già, Tatarella. Quante volte in questi giorni è riecheggiato nelle orecchie di Fini quel nome, quella frase fatta «quando c'era Pinuccio...». Persino un personaggio fuori dagli schemi come Pietrangelo Buttafuoco sostiene che con Tatarella «forse la disavventura delle Europee» non sarebbe stato consumata e che l'alleanza con Segni è stato il frutto dell'«involontaria solitudine di Fini». E visto che a Fini è stata data carta bianca dai suoi colonnelli, ora non si lesinano le crìtiche: «Probabilmente - dice Gianni Alemanno, capofila della destra sociale - è stato un errore cavalcare l'onda referendaria quando quella china era discendente. Si è arrivati tardi e scommesso troppo su questo versante, tra l'altro proprio mentre comparivano nuovi soggetti, come la Bonino e l'Asinelio di Prodi». Ma su come uscire dall'angolo le ricette sono diverse: per Gasparri «An deve tornare a fare la destra, non una destra ancien regime, ma che sia coerente e non faccia scorribande», mentre per Alemanno «questo di Gasparri è uno schema ideologico, perché destra vuol dire tante cose; semmai bisogna ripartire da Verona, dal partito di programma. E fare un congresso: l'ultimo si è fatto cinque ani fa e lo statuto ne prevede uno ogni tre. In periferia c'è una classe dirigente che va rinnovata». E lui Fini? Oggi parlerà alla direzione del partito, ma chi lo conosce bene assicura che non ha farà sterzate plateali. Ma per la prima volta il capo sente attorno a sé qualche scricchiolio e in queste ore ai suoi amici è tornata in mente una frase che Fini disse agli intimi qualche mese fa: «Dentro al partito c'è qualcuno che, psicologicamente, è sul libro-paga di Berlusconi». Ma è sempre più sotto accusa l'alleanza con Segni E si rimpiange Tatarella: «Se ci fosse ancora Pinuccio...» LI TAPPI DI FINI IL 8IOMTARIO. MARZO '87 Gianfranco Fini, delfino di Almirante, è eletto segretario nazionale dell'allora msi. (Resterà in carica fino al gennaio 1990. Vi ritornerà dopo la parentesi della segreteria Rauti, dal luglio 1991 al gennaio 1995). I RISULTATI ILITTORALI Alle Politiche dell'89 il msi scende e arriva al 5,5%. Nelle amministrative del '90 il partito ottiene il 4% dei consensi, il peggiore della sua storia. Nel '91 un altro disastroso risultato elettorale (nelle regionali siciliane). 1992: il msi «tiene» e ferma la caduta (con il 5,4%). E' l'inizio di un ciclo di vittorie. 1993: nelle amministrative il msi guadagna punti e consiglieri. Nell'estate, nasce l'ipotesi di Alleanza nazionale, per costruire una moderna destra europea. 1994, LA SVOLTA L'assemblea nazionale msi a gennaio decide di utilizzare il nuovo simbolo elettorale di Alleanza nazionale. PALLIATO DI HRLUSCONI Alle politiche del marzo '94, An alleata di Forza Italia, arriva al massimo storico dei voti, 13,5%. Un trionfo confermato dal 12,5% alle Europee di giugno. Cinque ministri di An entrano nel governo Berlusconi: Adriana Poli Bortone Solitiche agricole), Publio Fiori (Trasporti e Marina mercantile), iuseppe Tatarella (Poste), Domenico Fisichella (Beni culturali), Altero Matteoli (Ambiente). NASCI AN. OINHAIO '9B A Fiuggi nasce ufficialmente An e Fini diviene il presidente. Rauti se ne va e fonda il Msi Fiamma Tricolore. LA NUOVA «DISTRA» Fini la lancia alla Conferenza programmatica di Verona. Nuovo simbolo, la coccinella. GIUGNO '99, IUROMI Patto con Mario Segni e col suo progetto dell'Elefantino ma è una sconfitta. Insieme si fermano al 10,3%. Qui sopra Maurizio Gasparri Accanto Ignazio La Russa e Francesco Storace
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