RATZINGER Il tempo non finirà

RATZINGER Il tempo non finirà Quale sarà il destino del Cosmo e della Storia? Il cardinale s'interroga sul tema che ha sfidato i filosofi RATZINGER Il tempo non finirà L tempo e la fine del tempo, il tempo cosmico e il tempo dell'uomo, la storia del singolo individuo e quella complessiva dell'umanità: sono i lami sui quali si concentra Joseph Ratzinger in un denso saggio che sarà pubblicato a giorni su Nuntium, la rivista della Pontificia Università Lateranense, di cui anticipiamo la parte finale. Settantadue anni, sacerdote dal '51 e cardinale dal '77, Ratzinger è noto come l'inflessibile Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (l'ex Sant'Uffizio); nonostante i molti incarichi in Vaticano ha sempre coltivato l'interesse per la riflessione filosofico-teologica, come dimostra questo scritto in cui affronta interrogativi che hanno pungolato i grandi pensatori di ogni tempo, da Aristotele a Tommaso d'Aquino, da Teilhard de Chardin e agli scienziati d'oggi. Che vi sia una fine rispetto al tempo della vita individuale, osserva Ratzinger, è indiscutibile: «Ma ha una fine anche la storia umana come totalità? E' l'arco della vita singolo e del singolo ciclo di storia un'immagine anche per la storia nel suo insieme?». E «la fine del tempo, della storia complessiva, è solo un venir meno, o esiste anche qui una forma di permanenza - forse un giudizio, una separazione fra il bene e il male che vi è in essa?». Joseph Ratzinger I è oggi soliti contrapporre la comprensione cristiana del tempo in quanto lineare alla comprensione ciclica del tempo della filosofia antica e delle religioni non bibliche. A partire dalla teologia medievale e invero anche dei Padri non si può individuare una delimitazione cosi schematica. Infatti la teologia medievale ha ripreso lo schema storico tramandato dall'antichità, che caratterizza il tempo della creazione con i due elementi direzionali exitus e reditus, uscita e ritorno, e quindi pensa ad una sorta di movimento circolare, Tommaso d'Aquino, ad esempio, dice al riguardo che «il movimento circolare è il più perfetto di tutti i movimenti, perché in esso ha luogo un ritorno all'origine. Se l'universo deve raggiungere il suo ultimo compimento, allora le creature devono ritornare alla loro origine». [...] Con l'immagine della storia come di un circolo dall'origine al ritorno, la cui svolta si trova nell'incarnazione di Dio, Tommaso ha per cosi dire ripreso e cristianizzato un paradigma assai diffuso. In lui come in genere nei pensatori medievali tutta quanta la storia del cosmo e dell'umanità appare come un grande movimento circolare, in cui vi è un antropocentrismo teologico - nel' senso stretto della parola - in quanto l'uomo, al quale Dio si unisce, è 0 centro del movimento ed esso per mezzo di lui giunge al suo fine. Nelle religioni naturali ed in molte filosofie non cristiane cosmo e storia appaiono come un movimento che si ripete continuamente. Il contrasto fra questi due modi di vedere, a ben osservare, non è cosi radicale, come potrebbe sembrare a prima vista. Infatti anche per la visione cristiana del mondo nell'unico grande circolo della storia, che va dall'exitus al reditus, sono iscritti i molti piccoli circoli della vita individuale, che portano tutti in sé il grande ritmo di quello grande, lo realizzano di nuovo ogni volta e gli danno così la forza del suo movimento. E nell'unico grande circolo sono iscritti anche i molti circoli vitali delle diverse culture e comunità storiche, nei quali si svolge sempre nuovamente il dramma di inizio, ascesa e fine. [...] Importante è un'altra alternativa, che come tale si è sviluppata solo nell'incontro fina fede cristiana e filosofia non cristiana. In Plotino ad esempio e poi in modo molto simile nelle filosofie gnostiche, ì'exitus, in forza del quale esiste l'essere non divino, appare non come un uscire, ma come un cadere, come un precipitare dall'altezza del mondo divi- R no, e seguendo le leggi della caduta discendere verso abissi sempre più profondi, in una lontananza sempre maggiore dall'ambito del divino. Ciò significa: l'essere non divino è di per sé e in quanto tale essere decaduto; la finitezza è essa stessa una specie di peccato, l'elemento negativo, che deve essere redento attraverso il suo recupero all'interno dell'infinito. Il ritomo all'origine - il reditus - consiste allora proprio in questo, che nel più profondo abisso la caduta viene bloccata, ed ora la freccia del movimento è diretta verso l'alto. Se il ritomo è redenzione Alla fine ha termine il «peccato» dell'essere finito, dell'essere che non è Dio, ed in questo senso Dio diviene «tutto in tutto». Il movimento del reditus significa redenzione, e redenzione significa liberazione dalla finitezza, che come tale è il vero peccato del nostro essere. Il guardare in alto verso il divino di¬ venta la consapevolezza della caduta, è allo stesso tempo il momento del pentimento del figlio perduto, il nuovo rivolgersi verso l'origine. [...1 Il pensiero cristiano in opposizione a quanto ora esposto ha fortemente distinto l'uno dall'altro due movimenti nel circolo di exitus e reditus. L'exitus innanzitutto non è una caduta dall'infinito, lo sdoppiamento dell'essere e quindi la causa di tutte le miserie del mondo, ma l'exitus è in primo luogo qualcosa di totalmente positivo: il libero atto creativo di Dio, che vuole positivamente che di fronte a lui esista l'essere creato come realtà buona, dalla quale possa venire a lui una risposta di libertà e di amore. L'essere non divino non è pertanto qualcosa di in sé già negativo, ma al contrario un frutto positivo di un atto di volontà divina. Non è l'effetto di una caduta, ma di ima decisione di Dio, che è buono e crea il bene. L'atto divino, che crea l'essere creato, è un atto di libertà. In questo senso nell'essere stesso fin dal suo fondamento è presente il principio della libertà. L exitus o meglio il libero atto creativo di Dio mira di fatto al reditus, ma con ciò non si intende ora il riassorbimento dell'essere creato, bensì esso consiste piuttosto in questo, che il rientrare in se stessi della creatura in sé autonoma risponda liberamente all'amore di Dio, assuma la creazione come il suo comandamento d'amore e abbia così inizio un dialogo d'amore, quell'unità totalmente nuova, che soltanto l'amore può creare. In essa l'essere dell'altro non viene assorbito, dissolto, ma proprio nel donarsi diviene totalmente se stesso. Nasce un'unità, che è più profonda dell'unità della particella elementare non più divisibile. Questo reditus è «ritorno all'origine», ma non dissolve la creazione, al contrario le dona pienamente la sua definitività. Questa è l'idea cristiana di «Dio tutto in tutto». Ma tutto l'insieme è anche legato alla libertà, e la libertà della creatura è ora quella che provoca una deviazione nel positivo exitus della creazione, anzi, in certo qual modo lo fa rovinare nella caduta: nel non voler essere dipendente, nel no al reditus. L'amore viene ora compreso come dipendenza e viene respinto; al suo posto subentra l'autonomia e l'autarchia: essere soltanto a partire da se stessi ed in se stessi, essere un Dio per ciò che si è da noi stessi. Così si spezza l'arco dall'exitus al reditus. Il ritorno non è più desiderato, e l'ascesa con le proprie forze si rivela come impossibile. Perciò ora il processo del ritorno deve essere messo in moto per mezzo di una forza di guarigione, in una forma sofferta di riconciliazione attraverso una trasformazione amante della libertà infranta. [...] Il tempo in questa concezione è legato essenzialmente alla libertà, è un movimento della libertà. Esso proviene dalla libertà creatrice di Dio, che con il movimento cosmico innanzitutto predispone uno spazio per la libertà: il cosmo non è neutrale nei confronti dell'uomo, l'uomo non è un povero parassita dell'essere, ma il cosmo è creato per la libertà, che ne assume il movimento interiore e sola può condurlo al suo fine. Infatti il ritorno in patria, che è il punto finale del movimento, può realizzarsi solo come libertà che si ridona e così si ritrova pienamente. Perciò questo ritomo in patria non è ora un riassorbimento del tempo nell'atemporalità, ma il divenire definitivo del tempo. La sua fine non è un dissolvimento, ma la forma finalmente trovata del suo perdurare, libertà piena di luce, che trova la sua dimora definitiva nell'incontro con la verità e con l'amore. Essa assume in sé il cosmo che ad essa è orientato, che le appartiene interiormente, e che diventa così «nuovo cielo e nuova terra». Certamente non si può dimenticare che esiste il rischio della libertà con tutte le sue conseguenze; di queste, come segno drammaticamente esemplare, che nessun ottimismo può ormai rimuovere, restano in noi impressi Auschwitz e l'Arcipelago Gulag. L'interrogativo che si pone, se il rischio della libertà non era troppo alto, il suo prezzo troppo caro, se non sarebbe stato ancora meglio che essa non ci fosse stata, supera i nostri limiti, i limiti della nostra capacità di comprensione e del nostro orizzonte. Qui vale ciò che al termine del libro di Giobbe, dopo il discorso di Dio, dice l'uomo al cospetto della divinità: «Ecce, sono ben povera cosa. Che cosa ti posso rispondere? Io mi metto la mano sulla bocca» (40,4). «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento su polvere e cenere» (42.5s). In ogni caso dobbiamo anche ammettere la possibilità che esista la libertà tallita, non riconciliata e non riconciliabile, il male irrevocabile - un irrigidimento, per cosi dire, dello spinto verso il basso, che logora il tempo donato all'uomo e lo lascia come devastato. L'Apocalisse non è un idillio Ma d'altra parte l'affermazione centrale della fede neotestamentaria è che vi è la possibilità nell'amore vicario di recuperare e di riconciliare la libertà decaduta, il tempo usato male, così che le ferite dell'ingiustizia e del male divengano nella sofferenza accettata segno della pa- ce. Il ritorno alla casa del Padre, del quale ultimamente parla l'Apocalisse, non è affatto un idillio, ma presuppone la lotta contro il male, contro l'ingiustizia e l'odio. Esso implica un nuovo intervento di Dio che va oltre la creazione, perché soltanto l'amore infinito e la sua compassione è sufficientemente forte, da superare l'inimicizia e da rendere nuovamente credibile l'amore di fronte al timore della dipendenza ed all'esigenza di autonomia come apparentemente unica sufficiente forma della libertà. Soltanto quel Dio, che uscendo dalla situazione di distanza del Creatore e del Signore giunge fino ad assumere la situazione di dipendenza del servo, che compie il servizio di schiavo della lavanda dei piedi - solo lui ed il suo amore è quella forza che può prendere in mano il cosmo della libertà e ridare valore all'amore come vera autonomia, vera libertà. Tutto questo può suonare ingenuo o mitologico al non credente, ma come potrebbe non apparire mitologica l'audacia di Dio alla nostra razionalità emancipata? Le contraddizioni del marxismo Avevo detto in precedenza che la visione liberale come quella marxista della riconciliazione finale di libertà e necessità di natura rimane contraddittoria e soprattutto abbandona alle sue spalle i] t»mpo passato come semplice avviamento a ciò che è definitivo, non ha nessuna vera promessa da offrire a coloro che di volta in volta si affacciano allo vita ed a coloro che sono morti. Possiamo ora noi dire qualcosa di più positivo che dia un contenuto concreto all'attesa cristiana sopra accennata di un tempo assunto nella definitività, nella quale esso non viene riassorbito, ma riceve invece quella forma che gli permette di continuare ad esistere? Penso che un primo aiuto alla comprensione ci potrebbe venire dal concetto di memoria. L'essere umano può, interiorizzandolo, dare un carattere più personale al tempo che passa, dargli così un nuovo livello di sussistenza, nel quale esso do una parte ha fine come decorso e dall'altra nondimeno gli viene dato un permanere, una specie di eternità. Il vero modello, di come il tempo, trasferito in una nuova compiuta forma della sua sussistenza, contemporaneamente finisce e può essere reso definitivo, la tradizione cristiana l'ha visto nell'autodonazione di Cristo sulla croce, nel suo «sacrificio». Questo donarsi avviene nel tempo, come tale è innanzitutto un atto temporale, che però nell'autodonazione al Padre oltrepassa il tempo ed insieme lo assume in sé. Nel tempo matura ciò che è più del tempo, così che la fine del tempo diventa anche il suo compimento. L'atto esterno della crocifissione passa, egli rimane nella singolarità dell'irripetibile. Ma l'atto interiore, per quanto legato al tempo, da esso derivante, diviene permanente, diviene una realtà, nella quale la storia può uscire ed entrare. Così questo punto centrale della storia del mondo, il suo momento di svolta verso il reditus, potrebbe di fatto aiutare a comprendere che cosa possa significare positivamente fine del tempo. A partire da tali riflessioni potrebbe anche essere ripreso ancora una volta il tema di «Dio e il tempo»: non si potrebbe a partire di qui intuire qualcosa di come Dio sia contemporaneamente nel e sopra il tempo? U modo con cui l'amore, interiorizzandolo, dà un carattere più personale al tempo ed è assunto dall'eternità, ci potrebbe far intuire qualcosa della relazione di Dio con il tempo e della sua sovranità nei confronti del tempo. [...] «La conclusione della vita spezza una traiettoria o separa il bene dal male?» «Neì pensatori medievali la vicenda umana è vista come un movimento circolare» «Tornare alla casa del Padre presuppone la lotta contro l'odio Implica un nuovo intervento di Dio oltre la creazione» LA STAMPA à il destino del Cosmo e della Storia? Il cardinale s'interroga sul tema empo un termine tempo cosmico e il singolo individuo e nità: sono i lami sui tzinger in un denso giorni su Nuntium, Lateranense, di cui due anni, Ratzintto della Fede (l'ex «La conclusione della vita spezza una traiettoria o separa il bene dal male?» suo fine. Infatti ipatria, che è il pdel movimento, può realcome libertà che si ridoritrova pienamente. Peritomo in patria non è osorbimento del tempo n La meridiana. Por secoli simbolo del tempo ricordava agli uomini che ogni cosa ha un termine Joseph Ratzinger

Persone citate: Chardin, Giobbe, Joseph Ratzinger, Joseph Ratzinger I, Plotino, Ratzinger, Tommaso D'aquino