«Fratelli serbi, restate in Kosovo»

«Fratelli serbi, restate in Kosovo» NELLA CAPITALE DELLA REGIONE DILAGA LA PAURA TRA GLI EX CARNEFICI «Fratelli serbi, restate in Kosovo» arcivescovo Artemje in piazza a Pristina reportage Giuseppa Zaccaria inviato a PRISTINA AL termine di una guerra, fra il crollo di un sistema di potere e l'instaurarsi di un altro c'è sempre un momento di incertezza, un periodo di vuoto nel quale trovano spazio i regolamenti di conti. Il prossimo riguarderà i serbi del Kosovo. Stamani Pristina sembra avere ripreso un po' di vita: la notte scorsa la Nato non ha bombardato, il mercatino di «Mala Pia za» trabocca di gente, serbi e albanesi si sfiorano senza guardarsi e cercano sulle bancarelle. Sono arrivate perfino delle banane. Ma è come se la città continuasse a vivere su un doppio livello, in attesa che la pace riconduca tutto a un tipo di unità che nessuno riesce ad immaginare. Al mercato e sulla «Vidovanska», la strada principale, in silenzio si finge di convivere. Poco più in là, verso la periferia, al Palazzotto dello sport si parla invece di altri esodi, stragi temute, di reazione. Il «Movimento di resistenza serbo», gruppo nazionalista locale, ha indetto un'assemblea chiamando a raccolta una base fatta di commercianti e di coloni, una piccola borghesia arretrata e furente. A mezzogiorno, quando interviene la polizia, la sala è già stracolma. Si dovrebbe discutere, si dovrebbe decidere cosa fare, ma un maresciallone della Milizia arriva al Palazzo dello sport, parla all'orecchio dei capi e fa sapere che l'assemblea è vietata. Ufficialmente la sala deve svuotarsi perché la Nato può bombardare da un momento all'altro, ma in queste ore le incursioni si sono diradate, su Pristina non si è udita neanche la sirena dell'allarme. «In realtà - ci spiega un giornalista locale - interrompono perché si discuterebbe, e se si discutesse le accuse contro Milosevic si sprecherebbero». Cè anche una seconda ragione, più profonda: le autorità non vogliono che l'allarme si espanda ancora, che le parole di chi ha già deciso di andar via incitino gli altri a seguirlo. La sala si svuota senza preteste, però è fuori, sul piazzale, che i coloni continuano a discutere e i lo- ro capi ad arringare. L'arcivescovo Artemije era giunto da Pec per parlare ai fratelli ortodossi, e adesso improvvisa un discorso sul marciapiede: «Non abbandonate il Kosovo - esorta - non dovete lasciare la terra su cui siete nati, le vostre chiese, i vostri monasteri. Sarebbe un tragico errore, e per noi serbi gli errori storici non sono mai stati recuperabili...». I più vecchi applaudono, qualche donna asciuga il pianto col fazzolettone contadino. Un ragazzo grida: «Milosevic ha venduto noi per salvarsi il culo...». Subito dopo parla il capo del movimento, Momcilo Krajskovic, un omaccione che ha un. banco di verdure sulla via principale e di solito non usa troppe sfumature, Oggi però sembra più accorto del solito: «Restate, fratelli, anche se chi doveva proteggerci ci ha abbandonati. Non abbiate timore delle vendette, sulle vendette non si costruisce il futuro...». Vendette, ritorsioni, stragi.: nel vocabolario' precocemente post-bellico dei serbi kosovari queste sono le parole più ricorrenti. Se prima dei bombardamenti erano i leader albanesi ad avvertire «fate arrivare subito le truppe di terra o sarà una strage», oggi sono gli esponenti della serbila a gridare: «Che la. Nato ci protegga o saremo sterminati». Ciascuno dorme col mitra sotto il cuscino, dicono che in molte famiglie si sono armate anche le donne e a.monaci a suore dei conventi siano state distribuite armi automatiche. Riuscire a interrompere la geometrica, balcanica progressione fra pulizie etniche e pulizie di ritorno sarebbe un grande elemento di novità. Anche perché interrogando gente conosciuta prima dei bombardamenti si comincia a ricostruire l'accaduto, si cominciano a cogliere le dimensioni reali di quanto è successo. Era il 26 marzo, raccontano. Alla prima notte di bombardamenti Pristina aveva reagito con una sorta di stordimento collettivo, di atterrito stupore. La reazione dei serbi si scatenò dopo la seconda ondata di attacchi. «Non erano paramilitari, e neanche gruppi autonomi», ci spiega un amico albanese che ha paura di comparire con nome e cognome, come del resto ci dirà poco dopo la fonte serba. «Erano reparti della polizia, reparti normali, affiancati da gruppi di riservisti furiosi come belve. Il primo rastrellamento era guidato da piccoli gruppi di poliziotti mascherati. Partì da Maticane, una zona periferica abitata quasi esclusivamente da albanesi...». Il serbo, poco dopo, dirà: «Erano i quartieri che fornivano all'Uck l'appoggio maggiore. Due giorni prima dei bombardamenti a Velanja, un'altra di queste aree, erano stati uccisi quattro dei nostri poliziotti...». Da Maticane, infatti, in poche ore il rastrellamento si estese a Velanja e poi a Dragodan, Vranjevac, l'intera cintura cittadina. «Sfondavano le porte col calci dei mitra, urlavano "andate via o vi ammazziamo tutti". Per dare l'esempio, uccisero quattro uomini dinanzi alle porte delle loro case. Chi aveva l'auto caricava tutto e partiva in fretta, chi non l'aveva doveva mettersi in fila e marciare verso la stazione...». Un albanese incontrato ieri mattina mi ha raccontato di aver preso parte all'esodo a bordo della vecchia «Zastava» che possiede e di essere rimasto per sette giorni in fila al valico di General Jankovic. «Ero con moglie e figli, sotto di noi c'era la valle di Blace che brulicava di gente. In sette giorni abbiamo ricevuto soltanto un po' di latte fresco arrivato coi pruni soccorsi dalla Macedonia. Chi voleva passare doveva abbandonare l'auto, i macedoni non accettavano rifugiati in grado di spostarsi da soli. Qualcuno l'ha fatto. Poi dopo una settimana la polizia serba ci ha ordinato di tornare indietro». L'incrocio di testimonianze sembra tratteggiare per la Pristina degli ultimi due mesi un destino diverso da quello del resto del Kosovo. Mentre nelle campagne si bruciava e si uccideva, il capoluogo dopo la prima ondata di violenze si è adagiato in una sorta di armistizio provvisorio, di convivenza a testa bassa. Lo conferma un testimone d'eccezione: Adem Demaqi, già portavoce politico dell'«Uck» e oggi fuori dalla politica. Chiunque potrebbe ucciderlo, lui continua a passeggiare al mattino per la città. «Un paio di volte i poliziotti serbi mi hanno fermato, uno ha detto: "Ma lo sai che potrei ammazzarti"? GU ho risposto: se credi fa' pure, non ho paura... Certo che ho assistito alle violenze dei primi giorni. Non ho visto una sola formazione paramilitare, solo poUziotti e riservisti. Una mattina alla fine di marzo ho visto infrante tutte le vetrine dei negozi alba nesi, con torme di zingari che portavano via quel poco che era rimasto». «A Pristina comunque è accaduto ben poco rispetto alle violen¬ ze perpetrate nei villaggi. Bombardare senza inviare truppe è stato come Scoraggiare i serbi alla reazione. Ora, capisco che la Nato forse non aveva altra scelta, ma se la minaccia dell'intervento di terra fosse stata più concreta forse il regime di Milosevic sarebbe stato più accorto». Cosa succederà adesso? «Spero non si ripeta l'errore di Rambouillet: a Parigi, Christopher Hill parlava con la nostra delegazione al primo piano poi si spostava al secondo per discutere coi serbi. Invece dobbiamo discutere fra noi, perché dobbiamo continuare a vivere assieme. Se i serbi se ne andranno? Adesso sono terrorizzati, ma alla fine penso che partirà solo chi è stato coinvolto nei crimini di guerra e la gente per bene resterà. I nostri profughi torneranno, almeno in gran parte. Chi ci governerà? Io sono fuori, non mi va di polemizzare, ma penso che gente come Rugova e Surroi che hanno scelto di abbandonare il Kosovo non abbiano più il diritto di proporsi come leader. Nessuno è obbligato all'eroismo, ma se scappa poi deve avere la dignità di mettersi da parte. Qui si potrà vivere solo se albanesi e serbi rinunceranno ciascuno a qualcosa. Se in Serbia ci sarà un grande cambiamento sarà possibile, altrimenti la Nato resterà in Kosovo per anni...». «Sarebbe uno sbaglio e per La nostra gente gli errori storici non sono mai stati recuperabili» Con lui il leader del Gruppo di resistenza «Non temete vendette costruiamo il futuro» o a ieannpiù az di eaza caia di icte. ieoldoun va 'ohe uoarma no ita «In lodi le reontoe si di ciste, colo- ' . i i.'i.. ■ : B* ìirr A fianco, dall'alto In basso Ragazzi a spasso davanti a ciò che resta delle Poste di Pristina Un soldato dell'esercito iugoslavo aiutai» dal figlio carica I sud averi su un camion: adesso tocca a lui lasciare tutto Funerale 'serbo: là famiglia piange un autista del bus PristinaBelgrado, ucciso dall'Uck

Persone citate: Adem Demaqi, Christopher Hill, Jankovic, Milosevic, Rugova, Surroi

Luoghi citati: Kosovo, Macedonia, Parigi, Rambouillet, Serbia