Una bella p di Gabriele Romagnoli

Una bella p In America un articolo del «Chicago Tribune» diventa canzone di successo e mania di massa Una bella p aura prima dei pasti Gabriele Romagnoli inviato a NEW YORK ON preoccupatevi del futuro. O fatelo pure, ma sappiate che preoccuparsi è efficace come cercare di risolvere un'equazione algebrica masticando una gomma. I veri problemi della vita non attraverseranno la vostra testolina preoccupata fino a un misterioso martedì in cui vi sveglieranno alle quattro della notte». Sul volo AZ 600 da Milano a New York i passeggeri si bloccano, sguardo fisso ano schermo dove passa il video. Una voce maschile profonda canta-recita il testo, una grafica essenziale ne sottolinea le parole. Tutti gli americani di età compresa tra i venti e i quaranta sembrano inchiodati. «Fai ogni giorno una cosa che ti spaventa. Canta. Non fregartene dei sentimenti altrui. Non metterti concilisene frega dei tuoi. Usa il filo interdentale. Ricòrda i complimenti che ricevi. Dimentica gli insulti. Se ci riesci, dimmi come hai fatto». Sui 99.1 megahertz di WHFS, la radio rock di New York, è una richiesta continua, passa almeno una volta all'ora, entra nelle case di Atlanta e Filadelfia, è il brano numero uno nelle tre città, si sta espandendo a Ovest come un'onda. Non è una canzone, ma un inno. «Conserva le vecchie lettere d'amore. Butta i rendiconti bancari. Fai ginnastica. Non sentirti colpevole se non sai che cosa fare della tua vita. Le persone più interessanti che conosco non ne avevano la più pallida idea a 22 anni. Alcuni dei più interessanti quarantenni che conosco ancora non ce l'hanno. Prendi un sacco di calcio, preoccupati delle tue ginocchia, ti mancheranno quando saranno andate». E' un caso, una storia, una parabola della comunicazione, uno specchio dell'anima della generazione di mezzo di questa America. Coinvolge un grande, famoso e appartato scrittore; una (all'epoca) poco conosciuta giornalista di Chicago; un cyber-falsario rimasto anonimo; un originale regista australiano; una donna che prendeva il sole e milioni di persone che vogliono sentirsi libere, almeno, di mettersi la lozione solare. Titolo: «Tutti sono Uberi di mettersi la lozione solare». La storia comincia un giorno di fine maggio del 1997. Mary Schmich, autrice del non diffuso romanzo Brenda Starr e titolare di una rubrica sul «Chicago Tribune» cammina su Lake Shore Drive. C'è vento, al solito, ma non è questo a infastidirla. Piuttosto, la scadenza. L'indomani deve consegnare il suo pezzo al giornale e non sa che cosa metterci. Praticamente, non ha niente di originale da dire: né per forma né per contenuto. Continua a camminare e vede una donna prendere il sole sulla riva del lago. Pensa, racconterà poi: «Speriamo che abbia messo la lozione solare. Io non lo facevo mai, alla sua età, e ho la pelle danneggiata, va già bene se non mi sono presa un melanoma». Entra in un bar. Ordina un caffè. Apre un pacchetto di MB-M's c le sgranocchia guardando fuori Passa una ragazza in toga, neo-diplomata. Pensa ai discorsi di incoraggiamento che autorevoli personaggi tengono, in simili circostanze, ai ragazzi che si affacciano alla vita. Decide di scrivere la sua rubrìca in quella forma. Attacca: «Signori e signore della classe del '97...». Quale consiglio dare per primo? «Mettetevi la lozione solare. I benefici del suo utilizzo sono stati provati dalla scienza. Il resto dei miei consigli si basa, invece, sulla mia esperienza». E allora: «Apprezzate il potere e la bellezza della gioventù. Oh, niente paura. Non ne sarete capaci finché non saranno svaniti». E poi via: pillole di saggezza simil-zen («Leggete le indicazioni, anche se poi non le seguite») e avvertimenti di uso (e luogo) comune («Usate il filo interdentale»). Il 1° giugno del '97 la rubrìca viene pubblicata. La leggono, più o meno, in tre. Amen. «Non leggete le riviste di bellezza, servono soltanto a farvi sentire orribili». Fra i pochi lettori un tizio sconosciuto i^^M che naviga su Internet usando il nome Culprit Zero. Due giorni più tardi iSféBs* avvia una catena di Sant'Antonio in rete. Copia il pezzo di Mary Schmich e lo invia a dieci persone. Soltanto, lo attribuisce a Kurt Vonnegut. Ha notato qualche somiglianza nello stile secco, nell'ironia e nella semi-furia iconoclasta. Spiega che è un discorso tenuto agli studenti del Mit, il prestigioso istituto tecnologico del Massachusetts. La valanga parte. Il testo colpisce chi lo riceve, più o meno tutti azionano il comando per trasmetterlo all'intero elenco dei propri corrispondenti via e-mail. Alcuni passaggi diventano frasi di culto («Accettate alcune verità inconfutabili: i prezzi salgono, i politici fregano, voi pure invecchiente. E quando accadrà direte che, quando eravate giovani i prezzi erano ragionevoli, i politici nobili e i giovani rispettavano gli anziani. Rispettate gli anziani»). In breve Lozione solare diviene un testo guida, un manualetto di vita, un mantra popolare, il compendio di saggezza della e-generation, quella che cerca verità nella rete e la tramanda per email. Le dà peso l'autorità del suo autore, uno scrittore contro, un guerriero del pacifismo, uno che non si è venduto per il successo, un profeta. Che non aveva mai scritto una riga di quel testo. Intervistato sull'enorme presa del suo Lozione solare, Vonnegut risponde: «E che roba è?». I media cominciano la caccia al vero dispensatore della lezione. Curiosamente, l'hanno in casa, ma non lo sanno. La rubrica di giornale non aveva scosso nessuno, il falso su Internet ha creato un caso mondiale. Fino in AustraUa, dove il regista Baz Lurhman, noto per una versione cinematografica di Romeo e Giulietta ambientata a Verona Beach e interpretata da Leonardo DiCaprio, decide di pagare qualunque cifra per i diritti di quel testo. Manda la generosa offerta a Vonnegut, che declina con cortesia, spiegando che gradirebbe i soldi, ma proprio non può. L'agente di Luhrman scova la rubrica del «Chicago Tribune» e la sua autrice. Paga molto il giornale e pochissimo lei. Incidono il disco. Come già per il pezzo della Schmich, nessuno se lo fila. Finché arriva una copia alla stazione WHFS di New York. Il suo direttore, Pat Ferrise, lo ascolta nel suo ufficio e si accorge che chi passa davanti si ferma, incantato («Ballate, anche se siete soli in salotto»). Lo programma una mattina di primavera e i centralini sono intasati da gente che ringrazia e dice che la sua giornata sarà diversa. Dopo, è valanga. Ingresso nelle classifiche. Venduto come l'ultimo di Cher. Passato su MTV più di ogni altro. Citato e parodiato. Uno specchio della fragilità emotiva di un mondo, del suo bisogno di verità rassicuranti e dolci, certezze a basso costo e amenità contraccambiabili. Amatissimo da chi ha fra 20 e 40 anni e sta nel motore di questa macchina America che fila a tutta velocità, ma vuol sentirsi dire che è bene non sapere dove si sta andando. Il veicolo di una generazione ammirabile nella sua l'orza, amabile nelle sue debolezze, detestabile nella sua flessibilità etica. Bisognosa di mamme indulgenti e vecchi zii con la medaglia al valor civile, ma, alla prova dei fatti, capace di andare avanti anche senza i loro consigli. Perché «i consigli sono una forma di nostalgia, darli è come pescare oggetti nel passato, lucidarli, ritoccare quel che hanno di rotto e riciclarli per quel che valgono. Ma fidatevi per quel che riguarda la lozione solare». UM glla pti icago Triake Shore Nelle due fotografìe lo scrittore americano Kurt Vonnegut, cui è stata attribuita in un primo tempo la paternità di «Sunscreen», e l'ingresso del giornale «Chicago Tribune», dove è apparso l'articolo di consigli trasformato in canzone da hit parade i^^M iSféBs* tSÙHL,