La catena della qualità è la ricetta del made in Italy di Stefano Mancini

La catena della qualità è la ricetta del made in Italy COME NASCE E CRESCE IL POLLO NELLE CAPITALI DELLA ROMAGNA La catena della qualità è la ricetta del made in Italy reportage Stefano Mancini inviato a FORLÌ' SE in Italia si trattassero i cristiani come i nostri polli, la vita media aumenterebbe». Sarà un paradosso, ma a vederli dal di dentro gli immensi pollifici del Forlivese (quasi un terzo della produzione nazionale) mostrano un volto «umano»: aerazione continua, temperatura e umidità controllate, fondo in paglia, erogatori d'acqua che non fanno cadere neanche una goccia a terra, spazio per muoversi, nessuna gabbia, nessuna batteria, mangime dosato in funzione dell'età. Niente diossina? «Assolutamente no», assicurano i responsabili dell'azienda «Pollo del campo», a Santa Sofia di Forlì, duecento miliardi di fatturato annuo. In Belgio sono saltati due ministri per lo scandalo dei polli contaminati. Chi può garantire che in Italia la situazione è sotto controllo? «Noi. Siamo una filiera integrata». Vale a dire? «Siamo organizzati in cooperativa. Abbiamo ottanta soci: alcuni producono i mangimi, altri allevano i polli. Tutto il ciclo di lavorazione è sotto controllo, dalla deposizione delle uova, alla macellazione, fino alla distribuzione». A un socio non potrebbe venire in mente di aggiungere scarti di olio di rosticceria al mangime per risparmiare? «Sarebbe contro il suo interesse, perché se l'azienda va male è il primo a rimetterci. E poi abbiamo fissato precisi standard qualitativi». Il modello «filiera integrata» è la regola in Italia. Lo applicano l'«Aia» di Verona, gruppo leader con i suoi 1800 miliardi di fatturato annuo; la «Amadori» di Cesena, 900 miliardi, e via via tutte le altre grandi industrie del settore avicolo, una decina a spartirsi un mercato che ogni giorno mangia un milione e 250 mila polli e 24 milioni e mezzo di uova. Tutte le aziende assicurano l'allevamento a terra degli animali «da carne», la preparazione dei mangimi, i controlli igienico-sanitari imposti dalle severe leggi italiane. «Il pollo italiano viene riconosciuto come il migliore dai produttori stranieri - sostengono alla Amadori -. Peccato che la qualità costi e che i consumatori non siano informati di questa superiorità». Consumatori che ieri, lette le prime pagine dei giornali, hanno disertato le rosticcerie che vendono polli allo spiedo, ignorato le carni bianche in macelleria, scartato i panini al «pollo alle erbe» proposti da alcuni punti ristoro autostradali. I produttori, tuttavia, non temono crisi. Secondo qualcuno è anche possibile un positivo effetto boomerang: l'aumento delle esportazioni dei polli italiani tirati su a mangime italiano, oggi pari all'8,5 per cento del prodotto. Eppure è proprio l'alimentazione degli animali d'allevamento da sempre nel mirino di animalisti e igienisti. Che cosa mangia e (soprattutto) che cosa dovrebbe mangiare un pollo? Vittorio Domenicani, direttore produzione e qualità della «Polli del campo», dichiara un menù «per il 92 per cento di cereali (grano, mais, sorgo e soia); il rimanente è costituito da erba medica, sali minerali, vitamine e farine proteiche di origine animale in una misura massima del 2 per cento». Lo stesso tipo di farine che hanno scatenato l'epidemia di mucca pazza? «Ci sono due differenze fonadamentali: i bovini sono erbivori, i polli onnivori, perché per esempio mangiano i lombrichi. E poi le nostre farine animali vengono fatte con gli scarti di produzione, dunque ne conosciamo bene l'origine. Alle galline da riproduzione non le diamo, per evitare che crescano troppo». Un'altra azienda, la Sant'Angelo, garantisce che i suoi polli marchiati «naturicchi» sono tirati su con regime vegetariano: niente farine di carne e pesce, niente grassi animali né fattori di crescita. Il quotidiano francese «Liberation» ha pubblicato nei giorni scorsi la dieta dei galletti transalpini (la fonte è l'associazione dei produttori): le farine di origine animale rappresentano il 3%, gli oli e grassi aggiunti l'I96. Secondo i produttori italiani non è soltanto questione di mangime. Rita Pasquarelli, direttore generale dell'Una, l'unione degli avicoltori, parla di «controlli incessanti», di «veterinari delle Asl negli stabilimenti a controllare tutte le fasi della produzione». «Noi le chiamiamo persecuzioni aggiunge - ma come consumatrice sono contenta che ci siano. I nostri ministri dovrebbero pretendere dall'Unione europea l'applicazione di queste nonne in tutti i Paesi». L'Una smentisce quello che ritiene un luogo comune: l'allevamento in batteria. «Da trent'anni non si pratica più: la carne risultava pessima e il consumatore, giustamente, la disprezzava. Oggi il mercato chiede qualità». Vero. Però, ammettono gli avicoltori, le galline ovaiole vivono ancora in spazi angusti, sottoposti a ritmi giorno-notte accelerati perché facciano più uova. «Sfruttate e torturate», per usare i termini degli animalisti. I.a Svizzera ha abolito l'allevamento in batteria, l'Uc ha invece deciso di imporre gabbie più ampie (ma soltanto fra due anni). Verdi e Lav hanno preso spunto dallo scandalo scoppiato in Belgio per attaccare gli allevatori. Il presidente di Arcigola, Carlo Petrini, ha accusato l'agricoltura di aver sacrificato qualità dei cibi e salute umana alla logica dell'industria. Ma la categoria si difende: «Un conto sono le ragioni etiche, un conto la qualità. Le nostre gallme ovaiole ricevono il miglior mangime, come quelle da carne. Le gabbie? Forse è giusto imporne di più grandi, ma non dimentichiamo le ragioni dell'uomo: l'allevamento in batteria garantisce condizioni igieniche che quello a terra non potrà mai assicurare». «Le farine animali vengono fatte con gli scarti di produzione Così riusciamo a conoscere bene la loro origine» A sinistra il ministro della Sanità, Rosy Biodi. Nella foto grande polli in un allevamento del Nord della Francia

Persone citate: Amadori, Carlo Petrini, Rita Pasquarelli, Rosy Biodi