Milosevic, il signore delle macerie

Milosevic, il signore delle macerie LA VOLPE DEI BALCANI DIVENUTA SCIACALLO DEL SUO POPOLO Milosevic, il signore delle macerie L'ultima impresa del grande distruttore della Serbia personaggio Enzo Bettlza OGDAN Bogdanovic, un tempo il più famoso architetto della Jugoslavia, ex sindaco di Belgrado, ex membro del comitato centrale della lega dei comunisti, espulso dal partito quando Milosevic salì al potere e infine esiliato a Vienna, abbandonando la Serbia aveva scritto a futura memoria le seguenti parole: «Non è un segreto che Milosevic, il premier serbo, sia dal punto di vista psicologico un personaggio autodistruttivo. Il problema grave è che egli sta coinvolgendo tutto il Paese nella sua pazzia suicida. Non intende abbandonare la scena. Anzi ritiene che, se fosse costretto a scomparire, allora l'intera nazione serba dovrebbe in qualche modo sprofondare insieme con lui». Parole profetiche, vergate nel 1992, quando la Serbia stava muovendo la guerra alla Croazia e radendo al suolo Vukovar. Ma anche parole attualissime. Milosevic infatti, dopo aver portato in due mesi e mezzo la nazione serba al limite del suicidio collettivo, ora cerca di salvare il salvabile affidando la resa alle mani dei russi e sperando che la capitolazione sotto le bombe possa assumere la forma onorevole di un armistizio consensuale. Ormai egli sa che ha perduto la battaglia con la Nato e la faccia con i serbi. Una disfatta totale Il KOSOVO, dove entro adeguata cornice internazionale arriverà un forte nucleo atlantico di pace e di sicurezza, per garantire e proteggere il ritorno dei fuggiaschi, jjTanch'esso difatti in gran parte perduto: dal protettorato militare all'autogoverno kosovaro, fino ad un possibile plebiscito per l'indipendenza, lo sviluppo della situazione finirà con l'erodere sempre più la sovranità serba sulla regione. Non basta. Anche l'indipendentismo montenegrino, che sulla sconfitta di Milosevic ha già puntato molte carte audaci, non potrà fare a meno di trarre le debite conseguenze da un quadro che vede la Serbia piegata e impotente davanti ai pericoli di secessione che la minacciano da più parti. Tutto ciò che Milosevic avrebbe potuto ancora salvare a Rambouillet, l'ha perduto in termini esponenziali dopo Rambouillet. Il massimo che può sperare è di conservare per qualche tempo un potere asfittico nella sola Belgrado che, devastata per la sua follia e i suoi errori di calcolo, potrebbe rivoltarglisi contro da un momento all'altro. Sarà comunque da vedere se il tiranno cadrà, o se invece riuscirà a sopravvivere «sadamizzandosi», ovvero mummificandosi internazionalmente come Saddam Hussein. Non va sottovalutato neppure il peso schiacciante, morale e giudiziario, che sulla sua sorte e la sua disfatta avrà l'im- Jlutazione per crimini contro 'umanità emessa dal tribunale dell'Aia. La Grande Serbia Condannato eticamente, sconfitto militarmente, messo alla gogna dai kosovari che tornando in massa testimonieranno il fallimento del tentato genocidio antialbanese, la sola possibilità per Milosevic sarà una sopravvivenza drasticamente ridimensionata e sottoposta alla vigilanza della comunità internazionale. Insomma, un paradosso mai visto nella storia europea: un capo di Stato incriminato e costretto quasi agli arresti domiciliari dentro le mura del proprio palazzo presidenziale. Il mitico sogno della Grande Serbia, ricalcato dal comunista Milosevic sullo schema geopolitico concepito nell'Ottocento da un ideologo reazionario che si chiamava Carasanin, e ribadito nel 1986 dall'Accademia delle Scienze di Belgrado, è andato così definitivamente in frantumi. Si è anzi rovesciato nel contrario. Anziché espandere fuori dai confini la Serbia storica, anziché serbizzare i due terzi della Jugoslavia, la «volpe dei Balcani» ha fatto la fine dello sciacallo del proprio popolo. Dieci anni di guerre, di eccidi apocalittici, stupri programmati, campi di tortura e di sterminio, distruzioni di moschee e basiliche cattoliche, assedi di città simbolo come Sarajevo e Dubrovnik, non hanno impedito alla Slovenia, alla Croazia, alia Bosnia, alla Macedonia di costituirsi in Stati indipendenti. Peggio ancora: hanno decretato l'estinzione definitiva di quelle antichissime diaspore serbe di Croazia e di Bosnia che, manovrate in un primo tempo da Milosevic come quinte colonne armate, sono state poi votate all'autodistruzione dallo stesso Milosevic. Dal miraggio fallito della Grande Serbia la cricca milosevic iana s'è vista obbligata a retrocedere e attestarsi sui confini, assai più limitati, di una «piccola Jugoslavia» comprendente Montenegro e Kosovo. Adesso che montenegrini e kosovari sembrano decisi a non coabitare più con i serbi, a Milosevic non resta in mano che una piccola Serbia amputata, rovinata dalle bombe, affamata dalle sanzioni, priva di industrie e di sbocco al mare. Il redde rationem non poteva essere più pesante. Il virus suicida era ed è nei cromosomi dell'uomo che prima ha fatto esplodere la Jugoslavia e poi «suicidato» la Serbia medesima. Il padre, la madre, lo zio tutore, tutti, uno dopo l'altro, si sono uccisi in un clima di tenebra shakespeariana e di contagiosa patologia famigliare. Le sole passioni che l'orfano derelitto, cresciuto senza affetti, doveva poi incontrare nella vita, sarebbero state due: il potere e la moglie, l'amica, la confidente, l'infermiera Mira Markovic. Slobo e Mira Ad un certo punto, la cupidigia del potere assoluto e gli istinti di un familismo belluino si sono intimamente fusi, inducendo Slobo e Mira a credere che gli interessi della ricchissima famiglia Milosevic coincidessero al millimetro con le pulsioni etnocratiche del poverissimo popolo serbo. Il crimine fece da mastice all'unione e, purtroppo, coinvolse anche larghe e ingenue frange di contadini, operai e intellettuali nazionalisti. L'odio contro i croati identificati tutti con gli ustascia, il rancore per i musulmani bosniaci equiparati ai dominatori turchi d'antan, il vendicativo disprezzo per gli albanesi del Kosovo, considerati razza inferiore e infida, dovevano trasformarsi nel pugno manipolatore dei Milosevic quali armi di conquista e d'aggressione permanente nei confronti degli «alieni» limitrofi. L'operazione «podkova», «ferro di cavallo», è stato il corollario ultimo e mostruoso di una politica delittuosa basata sul genocidio recidivo delle eufemistiche «pulizie etniche». La «podkova» nel Kosovo presupponeva la fine di una comunità europea, a maggioranza islamica, di quasi due milioni di persone: quelle che ogni sera guardano dal video i nostri tavoli imbanditi. Fu dal Kosovo che tutto nel 1989 cominciò, ora è nel Kosovo che nel 1999 tutto finisce. Si conclude qui, fra macerie fumanti e cadaveri dilaniati, tra foibe e deportati, la più sanguinaria parabola d'Europa dopo la fine del secondo conflitto mondiale. E si conclude con la fatale simmetria circolare di un contrappasso che, forse, non toglierà ancora ai Milosevic né il potere né la vita, ma certamente sì l'onore e la dignità umana. Se sopravviverà come leader sarà costretto dall'Aia agli arresti domiciliari nel palazzo