Vincitori e vinti nel poker dei Balcani

Vincitori e vinti nel poker dei Balcani Politici, generali, mediatori: successi, errori e strategie di due mesi di bombe e diplomazia Vincitori e vinti nel poker dei Balcani Tredici protagonisti dell'ultima guerra europea L'accettazione del piano del G-8 da parte di Belgrado segna l'inizio della fine della guerra del Kosovo. Il conflitto militare sul terreno ha avuto come cornice un duello negoziale che ha visto alternarsi volti e nomi in decine di vertici affollati e incontri segreti. Non mancano le sorprese: Viktor Cernomyrdin lo ha iniziato come comparsa e lo termina da negoziatore di successo, proprio come il suo collega americano Strobe Talbott. Per Madeleine Albright e Tony Blair, per Massimo D'Alema e Javier Solana, per lo stesso Slobodan Milosevic l'operazione «Forza Alleata» non è affatto finita come era cominciata: l'identità, e forse anche la sorte, di questi personaggi è segnata. La guerra ha cambiato non solo la topografia della Federazione Jugoslava ma anche gli equilibri all'interno della Alleanza Atlantica. Le ripercussioni politiche e strategiche sono solo agli inizi e si avranno non solo sull'incerta mappa dei Balcani ma anche nella nascitura difesa comune europea. Per i protagonisti di «Forza Determinata» il dopo-guerra potrebbe essere più insidioso del conflitto stesso. Testi a cura di Maurizio Molinari CERNOMYRDIN // tessitore La guerra lo ha resuscitato. Finito nel dimenticatoio nel Cremlino da circa un anno è stato ripescato da Boris Eltsin che aveva bisogno delle sue doti migliori: stipulare gli accordi e sapersi intendere con gli occidentali su come farlo. Facendo la spola fra Mosca, Belgrado e Bonn Viktor Cernomyrdin (nella foto) si è proso molte rivincite: ha surclassato il rivale Evgheny Primakov (che lo aveva sostituito alla guida del governo), si è fatto ascoltare da Slobodan Milosevic meglio di americani ed europei, è tornato ad essere un personaggio di primo piano nel precario mondo politico russo. Se tutto filerà liscio in Kosovo Viktor Cernomyrdin potrebbe tentare di coronare il suo sogno: succedere a Boris Eltsin. ILYfIN L'inaffondabile Il presidente russo ha minacciato la guerra mondiale, ha insultato la Nato e gli Stati Uniti e durante un brindisi ha rivolto all'Occidente epiteti da stadio. Ma è stato un fuoco di paglia: delle dieci navi da guerra che dovevano arrivare in Adriatico solo una (poi sostituita) ha varcato il Bosforo; i missili nucleari russi sono rimasti sotto la sorveglianza dei tecnici americani; le relazioni interrotte con la Nato non hanno impedito all'ambasciatore russo di restare a Bruxelles. Boris Eltsin ha tirato la corda per non romperla. Non gridava all'Occidente (da cui ha incassato in queste settimane assegni per un valore di miliardi di dollari in aiuti) ma ai suoi russi per evitare che gli rubasse la piazza il rivale neocomunista Ghennady Zjuganov. MILOSIV1C L'imputato Slobodan Milosevic ha voluto la guerra per non accettare l'accordo di Rambouillet sull'autonomia del Kosovo, ma ne esce a pezzi: incriminato dal Tribunale dell'Aia per crimini contro l'umanità ha intorno a sé un Paese devastato. Ha perso la battaglia del Kosovo che sarà amministrato dall'Onu e poi godrà di un'autonomia nella Federazione Jugoslava addirittura più ampia di quella che lui rifiutò. Restare alla guida della Jugoslavia non sarà facile. Milosevic voleva uscire dai campi di battaglia di Kosovo Polje come riuscì al principe Lazzaro nel 1389: sconfitto dalle armi di un avversario più potente ma simbolo celeste dell'orgoglio nazionale serbo. Gli è andata male: sei secoli fa il Tribunale dell'Aia non esisteva ed oggi non gli resta altro che trovarsi un buon legale. AJLBRIOHT La guerriera Madeleine Albright, dama di ferro dei Balcani, ha iniziato la guerra per difendere Rambouillet e l'ha condotta per piegare Milosevic. Ma la conclude con un'eredità di ferite da sanare con Mosca, Pechino e qualche alleato europeo (Italia compresa) scottato dai suoi modi irruenti nei momenti più delicati. La sua scommessa è ricompattare tutti nella partita della ricostruzione dei Balcani. Non sarà facile: la Albright ha parlato più volte ai serbi nella loro lingua ma non è riuscita a convincerli che non era stata lei a volere la guerra. Grata a Londra e Parigi per l'affidabilità dimostrata ed lutata con le previsioni sbagliate sulla «veloce vittoria» di qualche generale, Madeleine si è tolta una soddisfazione: affondare il prestigio di Richard Holbrooke sostituendolo con il proprio vice Strobe Talbott. IO LANA L'alchimista Javier Solana ha iniziato la guerra da segretario generale della Nato e l'ha accuratamente gestita non solo per piegare l'uomo forte di Belgrado, Slobodan Milosevic, alle cinque condizioni dell'Alleanza ma anche per finirla con una solenne investitura «ministro degli Esteri e della Sicurezza dell'Europa». Le alchimie diplomatiche a tale, duplice fine, non si contano. Memorabile quella dopo l'incontro in cui D'Alema sottoponeva - senza molta enfasi - il testo della mozione parlamentare sullo stop ai raid che, nella sostanza, contraddiceva la strategia dell'Alleanza. «Tutti i contributi alla soluzione negoziata della crisi in atto nei Balcani sono benvenuti» disse Javier Solana facendo seguire alla dichiarazione il suo immancabile, beffardo, sorriso. CLARK //fortunato La guerra aerea doveva piegare Milosevic in dieci giorni. Le difese contraeree non avrebbero minacciato i voli a bassa quota. Gli elicotteri «Apache» avrebbero devastato blindati e carri armati serbi. Le truppe serbe si sarebbero sciolte come neve al sole prima del vertice Nato a Washington in aprile. I «danni collaterali» sarebbero stati minimi. Nulla di tutto ciò è avvenuto: i piani del generale Wesley Clark per piegare Belgrado non hanno funzionato e lui ha dovuto cambiarli quando l'opera era iniziata. Con tali premesse è quasi un miracolo che Clark abbia piegato Milosevic alle condizioni della Nato. La differenza con il Kuwait è proprio questa: la guerra in Kosovo è stata vinta in una maniera diversa da come si era progammato. Ma è stata vinta. ANNAN Un lento ritomo Scavalcato dalla Nato ha riguadagnato terreno con il passare delle settimane. Prima si è affiancato all'Alleanza nel sostenero le ragioni del conflitto, poi è volato a Mosca recuperando la Russia che minacciava fuoco e fiamme, quindi ha suggerito ai mediatori di far accettare a Belgrado una «forza internazionale» piuttosto che Nato. Uopo essersi bruciato con Saddam Hussein, Kofi Annali ha scelto una posizione defilata, consapevole che poi tutti - Nato, russi e cinesi - sarebbero dovuti tornare attorno al tavolo del Consiglio di Sicurezza. Come in effetti avverrà. Ma la lezione del Kosovo per l'Onu e severa: se non riuscirà a governare le crisi regionali a dispetto dei veli incrociati che immobilizzano il Consiglio di Sicurezza saranno altri a farlo al suo posto. AHTISAARI La sorpresa Quindici giorni fa Martti Ahtisaari era uno sconosciuto per il grande pubblico ed anche per alcuni sherpa della Nato, più volte ripresi per non aver scritto correttamente il suo nome. Quando il presidente finlandese si è imposto come mediatore europeo - grazie al semestre di presidenza dell'Ile - a Bruxelles è stato il momento del sarcasmo ed a Roma quello della gelosia. Ma il silenzioso nordico ha imposto i ritmi lapponi e l'esperienza frutto degli anni passati in Bosnia come rappresentante ufficiale delle Nazioni Unite. Freddo ed imperturbabile ha accettato la scommessa sul Kosovo anche per orgoglio nazionale: vuole sfatare il tabù che in Scandinavia solo i norvegesi possono aver successo come mediatori in un negoziato di pace. RUGOVA L'ostaggio Ibrahim Rugova non voleva la guerra, ne è stato travolto ed ora tenta di riguadagnare la leadership dei kosovari divisi. Imprigionato a Pristina da un conflitto che non era riuscito a prevedere, abbandonato dai suoi uomini corsi a combattere con l'Uck, Rugova per restare in gioco ha stretto la mano a Milosevic nei giorni più terribili della pulizia etnica poi - grazie alla mediazione di Sant'Egidio - ha potuto lasciare la sua casa-prigione. Riconquistare la sua gente non sarà facile. Al sangue versato dall'Uck può opporre solo la speranza di una convivenza con i serbi a cui non crede nessuno. Ma dentro ha un'infinita nostalgia per quella stanza di casa sua a Pristina dove negli anni aveva raccolto centinaia di pietre provenienti da ogni angolo del Kosovo. BLAIR // thatcheriano L'intervento in Kosovo è stato il debutto della «guerra etica» strumento della «politica estera etica» del governo Labour di Tony Blair. Alla prova del fuoco della dottrina dell'ingerenza umanitaria Blair non poteva che essere in prima linea, confortato dai sondaggi di casa propria che davano il suo perstigio in crescita anche quando proponeva l'intervento di terra. Le teste di cuoio inviate in Kosovo spalla a spalla con francesi ed americani, le portaerei schierate nell'Adriatico e l'intesa di ferro in ogni attimo del negoziato con Washington proiettano ora Blair verso il suo vero obiettivo: recitare un ruolo da protagonista nella nascitura difesa comune europea «separata ma non separabile dalla Nato» per riscattare la Gran Bretagna dall'aver disertato l'Euro. SCHROEDER // debutto Il Kosovo è stato per la Germania rosso-verde una indimenticabile «prima volta». Mai prima gli aerei della Luftwaffe avevano bombardato una città europea in questo secolo rimanendo «dalla parte giusta». Mai prima la sinistra erede di Bad Godesberg era stata così interventista e filo-atlantica, sfidando con britannica indifferenza perfino i pomodori dei contestatori. Mai prima ogni tedesco si era sentito in tutto e per tutto così «uguale» agli altri cittadini dei Paesi alleati. Le incertezze di Gerhard Schroeder nei primi giorni di guerra non devono trarre in inganno. La Germania esce diversa dal Kosovo: è protagonista in Europa non più solo grazie al Marco. Londra e Parigi sono avvertite: gli equilibri fra alleati sono destinati a cambiare. D'ALEMA La Realpolitik La guerra in Kosovo ha ricucito il rapporto di Massimo D'Alema con gli Stati Uniti dopo gli attriti sul caso Ocalan e le tensioni sui bombardamenti in Iraq. Salvo uno scivolone pacifista al vortice di Berlino, all'inizio della crisi, D'Alema è stato leale con la Nato comprendendo che la partita del Kosovo avrebbe pesato sui futuri equilibri fra alleati. Washington ha apprezzato la scelta di realpolitik di un premier contestato da una parte importante della propria coalizione ma non ha mancato di riprenderlo più volte come quando ha presentato come «piano italiano» proposte discusse in camera caritatis. Ora D'Alema punta ad un ruolo di primo piano per l'Italia nella ricostruzione e nella difesa europea. Per farlo dovrà chiedere al Parlamento di spendere di più. // pacifista Scettico, ha lavorato per accorciare i tempi del conflitto. Segnali a Belgrado, telefonate con Milosevic, franchezza al limite del possibile con Washington, secco «no» agli inglesi quando proponevano l'attacco di terra, denunce degli attacchi contro obiettivi civili: Lamberto Dini esce dal conflitto fra gli apprezzamenti ed il sostegno dell'ala rosso-verde della coalizione di governo e del pacifismo cattolico. Per tutti è stato «l'uomo della pace». Le quasi quotidiane conferenze telefoniche a microfoni aperti con i colleghi di Usa, Germania, Gran Bretagna e Francia hanno creato qualche grattacapo, portato informazioni e garantito soddisfazioni alla Farnesina. Come quando la Albright esclamò «Creati» all'annuncio di Dini sull'imminente partenza da Belgrado di Rugova.