STORIE DI CITTA'

STORIE DI CITTA' ■ lettori scrivono a «TorinoSetHte» e sottopongono alla nostra ■ attenzione quesiti e curiosità varie relative al piemontese. Questa attenzione alla nostra lingua e alle nostre tradizioni non può che far piacere ma, lo ripeto ancora una volta, non essendo un esperto in materia, posso solo dare spazio alle domande e sperare che qualche cortese lettore sia in grado di rispondere. Fra i cortesi corrispondenti c'è qualcuno che vorrebbe scrivere in piemontese, ma è paralizzato dalle difficoltà. Cito fra i tanti il ragionier Marcello Petrinetto: «Non mi sono mai cimentato a scrivere in piemontese in quanto mi fa paura la difficile grafia che varia da persona a persona». Per tutti costoro ho in serbo una buona notizia; visitando alla Fiera del Libro lo stand del Centro Studi Piemontesi abbiamo appreso che è stato messo a punto un correttore ortografico piemontese che permetterà di scrìvere testi in lingua al computer senza fare errori, secondo la grafia unificata; non è più vero, come asserisce il ragionier Petrinetto, che la grafia del piemontese varia da persona a persona. La signora Bruna Guastavigna ha delle curiosità su un proverbio che dice: «'Lpi brau di cavej ros ala campa soa marna 'nt al pus», cioè «il più bravo fra quelli che hanno i capelli rossi ha gettato sua mamma nel pozzo». Scrive la signora Guastavigna, a nome di un gruppo di amici alcuni dei quali con i capelli rossi: «Il nostro quesito non riguarda certo il significato del proverbio, perché siamo tutti piemontesi. Vorremmo sapere quale o quali motivi ci sono all'origine di quelle parole e se esiste una pubblicazione che possa aiutarci». Se è per questo anche il papà dei rossi corre qualche rischio, almeno secondo un proverbio biellese che recita: «Al pu brau di rus al'a campa so pare 'nt al pus». Secondo il mio parere la spiegazione di tanto accanimento consiste nel fatto che i capelli rossi sono un carattere recessivo che compare raramente dalle nostre parti; perciò chi li porta è un «diverso», specie in una società contadina, statica e con pochissimi scambi che marchiava con ferocia i diversi di ogni specie. Credo che in molte regioni si trovino proverbi analoghi, basta riandare ai racconto «Rosso Malpelo» di Giovanni V'ìtga o a quel piccolo capolavoro che è «Pel di Carota» di JÙles Renard. Di ben più vasta portata sono le curiosità linguistiche di Just Ivetac-Berné, giornalista croato in pensione, temporaneamente residente a Torino. La prima: «Ascoltando la gente nei piccoli paesi (per lo più tra le bancarelle dei mercati all'aperto) situati nelle varie regioni dell'arco alpino, cominciando dai dintorni di Cuneo fin sopra Zagabria, ho notato che molte persone alla fine delle frasi spesso aggiungono la particella "ne" (un misto di interrogativo, affermativo e esclamativo), egualmente nei dialetti romanzi, tedeschi e slavi (sloveni e croati). Le scrivo perché sono proprio curioso di sapere da dove proviene questo piccolo "agganciamento" linguistico tra le varie parlate dell'area alpinasubalpina». Il nostro corrispondente è attento anche ai nomi di luogo: «Ho accertato una dozzina di toponimi comuni non soltanto nell'area alpina. Ad esempio, Dog li ani ha cinque omonimi soltanto in Croazia (grafia croata Doljani). Sarà un caso perché Dogliani in provincia di Cuneo è di origine romana (l'antica Doliana), mentre la radice dei Doljani in Croazia proviene da "dol" o "dolina" che vuol dire piccola valle, sovente a forma di imbuto». A parer mio sono tutti argomenti a favore della tesi dell'esistenza di una «regione alpina», con forti elementi unitari al di qua e al di là delle Alpi. L'abobzione dei confini statali all'interno dell'unità europea dovrebbe renderla ancor più evidente. I nostri lettori scrivono anche per contribuire a tener viva e arricchire la lingua piemontese. In una recente trasmissione televisiva Alessandro Perissinotto, per dimostrare la ricchezza lessicale del piemontese, aveva lanciato una sfida scherzosa citando dei termini che non hanno l'equivalente in italiano. Puntuale Giorgio Amprino ancora una volta mi viene in soccorso inviandomi la fotocopia di una pagina di Alberto Viriglio, dal libro «Come si parla a Torino», del 1897, dove sono citate parole preziose, insostituibili. Come Spèrss, desiderio, pena per la lontananza, quasi la portoghese e altrettanto intraducibile Saudade. Oppure Papardela, scritto lungo e noioso (i giornalisti dicono «articolessa»); Mitunè, cuocere lentamente a piccolo fuoco; Magone, affliggersi in silenzio, a cui aggiungerei, dalla mia infanzia, Fè 1 ciapin, cioè atteggiare le labbra a forma di ferro di cavallo, annuncio di pianto in arrivo. La Maroca è la merce di cattiva qualità e Sgatè è scavare con le mani. Giorgio Amplino mi manda anche, e lo ringrazio, un ricco elenco di termini che tagliano i panni addosso agli altri, allo scopo di arricchire la mia già cospicua collezione. Ne cito solo qualcuno, come lo stupendo Pastrocejre, arruffone, oppure Badinot, Buio, Griboja, 'Nplucà, 'Nbiavà, Davaneur, che parla sconsideramente, Farfo, Gargh, Desdeuit, Ansagnacu, sonnacchioso, Anterpi, lento, impacciato, Patamòla, snervato, privo di forze, Panbianc, Barbagiaco, baggiano. E' inutile, quando si tratta di trovare delle buone qualità al nostro prossimo, a noi piemontesi non ci batte nessuno. STORIE DI CITTA'

Luoghi citati: Croazia, Cuneo, Dogliani, Torino, Zagabria