L'esodo dei condannati da Kukes

L'esodo dei condannati da Kukes I PROFUGHI ALBANESI SI ALLONTANANO DAL CONFINE L'esodo dei condannati da Kukes I soldati italiani organizzano il trasferimento a Sud reportage Vincenzo Tessantìorl inviato a MJEDE (Albania) aUANDO il portellone del camion militare olandese si abbassa, appare il visetto di Fejz. Più che sorreggere, abbraccia un materassino di gommapiuma. Fejz ha sette anni. Da dove arrivi? «Da Prizren», risponde pronto. E invece arriva da Kukes, dove è rimasto con i suoi per tre settimane. Ma lui dice Prizren, che sembra un luogo dello spirito, così remoto nel Kosovo. La stazione di Mjede, ai piedi della salita interminabile per Kukes, sono due capannoni cadenti, sassi, polvere, alcuni vagoni arrugginiti, un convoglio fermo e disastrato: quello che porterà fino a Durazzo, Elbasan e Fier gli esuli che, fra mille incertezze, resistenze, dubbi hanno accettato di venir via dal confine ed è stato un po' come ammettere che il ritorno si allontana. Allo snodo ferroviario ci sono gli alpini della Brigata Taurinense che vegliano sugli esuli, ne organizzano la partenza su quel treno che ha sette vagoni vecchi, semidistrutti e arrugginiti ma che in qualche modo si muove. Tutto il perimetro dello scalo è sorvegliato a vista dai soldati italiani e dai carabinieri che fanno servizio di scorta anche ai convogli spontanei, quelli formati dai trattori con rimorchio che, senza preavviso, si mettono in colonna e puntano verso il centro dell'Albania. Erano le 10,30, ieri, quando a Torovica, sopra Lexha, ho incontrato una di queste colonne, sulla strada nazionale che dal Noid porta a Mezzogiorno, quella che dovrebbe essere la grande arteria e invece è un disastro continuo. Venticinque trattori, 150 persone, tre camionette dei carabinieri: avanti, a passo d'uomo, e quando sono vicini ti guardano negli occhi e sorridono tristi. Questo gruppo era partito l'altro giorno da Kukes ed era arrivato alla stazione di Mjede alle undici della notte. C'erano solo gli alpini e i carabinieri ad accoglierli, e una donna con un bimbo in braccio si raccomandava e nessuno sapeva perché. Poi s'è capito, racconta il capitano Alessandro Cottone: chiedeva pannolini per la sua creatura, e per un'ora è stato quello il grande problema. Un maresciallo è corso a Scutari e ha fatto aprirò una farmacia, poi è tornato, raggiante: «Missione compiuta». Gli esuli hanno dormito sui loro carri, che sono tutto quello che ormai rimane loro, i soldati li hanno vegliati e alla prima luce sono ripartiti. Comincia così il grande esodo e pare una goccia tolta dal mare perché lassù sono oltre centomila e nessuno fa previsioni sul tempo che ci vorrà per vuotare quell'area. Lasciano i campi. ma vengono via anche coloro che nei campi non hanno trovato posto. Come i 125 uomini che ora sono là in fondo al secondo capannone, seduti sui talloni, in attesa paziente. Loro sono arrivati da poco dal Kosovo, eran tutti detenuti a Smrakonice, presso Mitrovica, accusati di terrorismo, di far parte dell'Uck, l'Esercito di liberazione del Kosovo. «Ma io non facevo parte di niente», assicura Sabit Vatozi, 35 anni, il volto scavato nascosto da una folta barba. «Son rimasto in carcere tre settimane. Mi interrogavano, mi picchiavano, mi facevano stare in piedi sul cemento per ore, insistevano perché ammettessi che ero un terrorista. Poi mi hanno detto di firmare una lettera ed era la mia confessione. Falsa». E tu che cosa hai fatto? «Ho firmato, mi lasciavano andare». «Anch'io ho firmato» dice Mi- ftar, e Sejdi, e Shoban, e Gene, o Ibrahim, e Kujtim. Ti sono tutti intorno, ora, e vogliono raccontarti la loro storia, che ò sempre straziante. Cercano la famiglia, di cui non sanno più niente da quando li hanno presi. Sabit Vatozi ignora dove siano finiti la moglie e i cinque figli. Ora sa che andrà a Sud, continuerà a cercarli. La partenza è prevista per le 18, tappa a Durazzo, per molti. Intorno alla città portuale i genieri italiani hanno cominciato i lnvori per tirar su altre tre tendopoli, e ancho l'ospedale militare lavora a pieno ritmo: da 80 i posti letto son diventati 120. Finora 13.050 persone son state visitate e curate, 13 bimbi e 2 adulti trasferiti in Italia. Da tre giorni funziona anche il sistema di telemedicina e due interventi son già stati fatti in collegamento con l'ospedale Bambin Gesù di Roma. I profughi albanesi continuano ad affluire a Kukes dal Kosovo. Nella foto, una donna arrivata al confine con i suoi due bambini viene aiutata ad attraversare il posto di controllo da un soldato della forza multinazionale

Persone citate: Alessandro Cottone, Kujtim, Kukes, Kukes I, Sabit, Vincenzo Tessantìorl

Luoghi citati: Albania, Durazzo, Italia, Kosovo, Roma