Quella rivoluzione che non arriva mai

Quella rivoluzione che non arriva mai Dopo il primo di Cavour tutti i tentativi (falliti) di frenare la proliferazione dei dicasteri Quella rivoluzione che non arriva mai Filippo Ceccarelll PROBLEMA antico, comunque, antichissimo: «L'amministrazione centrale dello Stato - recita l'articolo 1 della legge n. 1483 varata su impulso del conte di Cavour dal Parlamento subalpino il 23 marzo 1853 - sarà concentrata nei ministeri». Sì, ma quanti? E poi: organizzati in che modo? Così, dal Regno di Sardegna all'Italia di D'Alema, lungo un secolo e mezzo, prosegue il feuilleton sul numero dei ministri: moltiplicazione, accorpamento, riordino e riordino del riordino. La notizia del giorno è che la rivoluzione dicasteriale di Bassanini, che pure è un politico competente e anche tignoso, stenta a decollare. Per quanto incautamente anticipata, la glorificazione della sua «bozza» di drastico restringimento degli apparati ministeriali sembra in effetti rinviata. Nessuno più di lui sa che ritornare oggi alla decina di ministeri che c'erano ai tempi di Cavour sarebbe stata, più che un'impresa difficile, un autentico prodigio. Già con Giolitti i dicasteri erano diventati dodici. Con molta passione Bassanini ci ha provato lo stesso. A quel punto le singole paure dei ministri che con la riforma avrebbero perso peso, potere e prestigio si sono alleate con quella Bestia apocalittica che è la Pubblica amministrazione E' già complicato mettere in piedi un governo, facendo combaciare i pezzi del mostruoso puzzle di dodici partiti, figurarsi smontarlo facendo sparire la metà dei bocconcini. La storia amministrativa italiana, d'altra parte, «ha propri svolgimenti che non coincidono con i mutamenti politici e costituzionali - ha scritto il professor Sabino Cassese - Il rapporto tra questi e quelli non è di causa ed effetto, ma va indagato, per ciascun periodo, tenendo conto della reciproca anche se parziale autonomia delle due storie». In altre parole - e con qualche licenza di brutale semplificazione - il modo di essere dei ministeri è sempre rimasto se stesso superando indenne qualsiasi trasformazione, dallo Statuto alberano all'ampliamento del suffragio elettorale, dal regime fascista alla Costituzione del 1948 passando come una salamandra attraverso la sua più materiale applicazione. L'indomito Bassanini saprà certamente che a qualche suo predecessore è andata anche peggio. Se non altro la sua «bozza» non Finirà al rogo. Nel 1929 Mussolini incaricò il ministro De Stefano, che non era per niente un fesso, di preparargli una bella riforma amministrativa. Si fece la classica commissione, si mandarono in stampa centinaia di copie di un rapportone dalla copertina bianca e arancione e via, tutti a Palazzo Venezia. Anche allora temendo guai, il Duce non apprezzò i risultati - che finirono puntualmente nei forni del Poh- grafico dello Stato. Insomma: debolezze umane e ipertrofie burocratiche rendono qualunque tentativo di riforma e razionalizzazione ministeriale una vera fatica di Sisifo. Nel 1959 Augusto Frassineti, uno scrittore ingiustamente dimenticato, pubblicò per Longanesi un gioiellino di viaggio fantastico nel regno dell'amministrazione, intitolato Misteri dei ministeri. E dire che a quei tempi, per restare al numero (compresa presidenza, vicepresidenze e incarichi cosiddetti «senza portafoglio»), la proliferazione era addirittura contenuta. Dai 20 ministeri del governo Parri si stava per arrivare ai 26 del primo Moro (1963, centrosinistra). Con il quarto governo Rumor si ebbe un'impennata, fino a quota 29; mentre quella particolare fantasia che specie in Italia asseconda la smania di poltrone si esercitava sulle più varie denominazioni neo-ministeriali: «per la Consulta», all'inizio, e «per l'Africa italiana», poi via via «per l'Assistenza post-bellica», «per la ricostruzione», «per la Cassa per il Mezzogiorno», «per l'attuazione delle Regioni», «per l'Onu», «per i problemi della gioventù». Quindi e già cominciava a suonare beffardo - «per la riforma burocratica»; e infine, ma non era finita, «per la funzione pubblica::., da molti ribattezzata «per la 'finzione' pubblica»... La fabbrica dei ministeri, con opportuna sovrapposizione e dovuto aggrovigli amento di competenze, dipendeva (anche) dall'uso sempre più frequente di quella specie di tavola pitagorica per far quadrare il cerchio senza scontentare nessuno che era il celebre Manuale Cencelli per la distribuzione delle poltrone fra le correnti de. Il punto è che tale distribuzione ne imponeva costantemente l'aumento. Nel secondo governo Cossiga, per dire, se ne inventarono tre. Così gli andreottiani, con Scotti, si beccarono 1'«Attuazione delle Politiche Comunitarie»; al trio cosiddetto delle «Sorelle Bandiera» (e cioè Donat Cattin, Colombo e Rumor) andarono gli «Affari Regionali»; e l'area Zac, con Andreatta, dovette accontentarsi di non meglio specificati «Affari Speciali». Da non confondersi, beninteso, con i successivi «Affari Sociali». Il meccanismo moltiplicatorio era governato da un complesso e perfino elegante strip-tease di deleghe dalla presidenza del Consiglio, che in realtà, nella lunga stagione dei sogni istituzionali, era ed è l'unica struttura che si è davvero rinforzata (dai 50 impiegati di un tempo ai 4 mila di oggi). Nel frattempo, in un tripudio di sincerità, non c'era programma di governo o elettorale, o collegato della Finanziaria, o altre grida che non reclamassero a gran voce l'accorpamento e il riordino dei ministeri. Goria ne ebbe 31, De Mita 32, Andreotti prima 32 e poi - record assoluto - 33. Con Amato scesero a 27, lo stesso numero di Ciampi; con Berlusconi 28; Dini - eccezionalmente - li ridusse a 23; Prodi si fermò a 24... Un anno fa, dopo la catastrofe di Sarno, Bassanini provò ad anticipare la tagliola, ponendo la questione della difesa del suolo. Ne nacque una lite furibonda - e per niente edificante - che a colpi di slittamenti e rinvìi lasciò la questione al punto in cui si trova oggi. Anche Mussolini studiò una riforma: il progetto finì direttamente nei forni del Poligrafico Dai 20 ministeri di Parri si arrivò ai 33 di Andreotti: il manuale Cencelli imponeva di accontentare tutte le correnti democristiane Il 2° governo Cossiga nato nell'aprile del 1980 Per l'occasione furono «inventati» tre nuovi ministeri Da sinistra: Franco Bassanini sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il conte Camillo Cavour e Benito Mussolini

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