«Compagni, deponete le armi» di Giovanni Bianconi
«Compagni, deponete le armi» PAULA LATITANZA A PARIGi «SI', FORSE SONO BRiQATiSTI» «Compagni, deponete le armi» Il Br Persichetti: abbiamo già fallito noi l'appello Giovanni Bianconi ROMA IL telefono squilla, e una voce arriva da Parigi: «Pronto? Sono Paolo Persichetti». E' il latitante Paolo Persichetti, 37 anni, brigatista dell'Unione dei comunisti combattenti, condannato a 22 anni e mezzo di carcere per l'omicidio del generale Lido Giorgieri, scappato in Francia e -, a differenza di tanti altri «esuli» - colpito da un decreto di estradizione non ancora eseguito. «Sono un clandestino ufficiale della Repubblica francese», dice di se stesso, mentre dal suo rifugio continua a seguire ciò che accade in Italia. Compreso il ritorno delle Brigate rosse e l'omicidio del professor D'Automi, naturalmente. «Su questo episodio e sulle affermazioni di alcuni ex militanti avrei qualche riflessione da fare», dice. Persichetti è uno dei brigatisti dell'ultima generazione, e il suo punto di vista - a prescindere dalle responsabilità che si assume con le proprie dichiarazioni - può essere utile per capire ciuello che sta succedendo in un Paese dove qualcuno è tornato ad uccidere, sotto la sigla Br, a undici anni di distanza dall'ultimo omicidio firmato da quell'organizzazione. «E' possibile - spiega Persichetti - che dietro questa azione ci sia un brigatista della vecchia guardia. Io non lo so, e so lo sapessi non lo direi. Comunque non è questa la cosa più importante; il problema è che questo eventuale "reduce", se esiste, è riuscito a radunare intorno a sé un gruppo di forze nuove. Da solo non avrebbe combinato nulla, invece ha reclutato: signfica che certe idee ancora attecchiscono, e la cosa non mi stupisce». Ma come, da cinque giorni è tutto un fiorire di ex brigatisti increduli, convinti che oggi la lotta armata non è riproponibile, e adesso spunta un latitante da Parigi che non si stupisce? «Cer- to che no - ribatte lui -, perché in Italia la tradizione del comunismo eversivo è talmente forte che ci sarà sempre qualcuno disposto a portarla avanti. E dal punto di vista delle condizioni sociali, io credo che la situazione di oggi sia peggiore di vent'anni fa: non c'è più il welfare, e le condizioni economiche sono peggiorate. Quello che manca, invece, sono i soggetti sociali organizzati in rivolta, che c'erano negli Anni Settanta e che sono un presupposto indispensabile, secondo me, per qualunque ipotesi di lotta armata». Più o meno l'analisi torna sui binari degli altri ex brigatisti, dalla Balzerani a Gallinari, ma Persichetti dissente su un altro punto dell'analisi dei suoi excompagni: «Loro rivendicano una sorta di diritto d'autore, un copyright sulla denominazione Brigate rosse che nessuno può usurpare. Io umanamente li capisco, ma politicamente è una posizione perdente. Intanto perché se questi sono forti fanno qualche altra azione e li sputtanano; e poi perché non ha senso rivendicare il copyright. Il brigatismo è una categoria del comunismo, una cultura politica di fine secolo, come lo sono stati il bordigliismo, il lenimmo, il trotzkismo. Bisogna rendersene conto, e se arriva uno che si richiama a questo filone e si definisce in "continuità oggettiva" con esso, non gli si può cure "No, tu no", perché quello ti risponde: "Ma chi sei? Chi ti conosce"». Che cosa bisognerebbe dirgli invece? ti ragionamento di Persichetti è tutto politico: «Bisogna riflettere sulle categorie fondativo del brigatismo, sul senso e l'attualità della lotta armata strategica, della clandestinità strategica, sull'esistenza o meno dell'accumulo sociale di forza politica...», il discorso si fa contorto, e finisce per assomigliare un po' troppo al linguaggio del documento che ha rivendicato l'omicidio D'Antona, ma Persichetti ribatte: «Io non l'ho ancora potuto leggere, ma da quello che ho capito manca totalmente l'analisi degli Anni Novanta. Sembra scritto la mattina dopo l'omicidio Ruffilli, non c'è alcun accenno allo sconquasso che c'è stato nel frattempo in Italia». Nonostante questo, per uno che è stato militante delle BrUdcc (fazione opposta alle Br pcc dopo la scissione del 1984) quelle ventotto pagine «si ispirano alla tradizione brigatista, e non ci sono scomuniche che tengano. Il problema è spiegare a queste persone che l'esperienza della lotta armata è già stata fatta in tutti i modi, e ha portato alla sconfitta. E allora, compagni, prima di continuare, rifletteteci. Qualunque altro discorso susciterebbe solo l'accusa di "imborghesimento" o di essere "ostaggi" della propria condizione, se fossero gentili». Ma possibile che non si possa semplicemente dire che non si può sparare e uccidere, che non c'è obiettivo che valga la vita di un uomo? Dalla cornetta arriva uno sbuffo che sa di rammarico e rassegnazione: «Neanche questo servirebbe, perché nel marxismo la violenza non viene esclusa a priori, ma anzi in certi contesti storici va utilizzata. La discussione si può fare solo sull'opportunità, non sul principio. E' terribile, ma quando ci si muove dentro l'ideologia si alzano degli schermi che non. ti fanno vedere l'uomo che hai davanti e che stai per ammazzare. Poi magari arrivi a casa e vomiti, ma quando spari non ci pensi». Questo manda a dire, da Parigi, un ex brigatista latitante sull'omicidio del professor D'Antona, «E' possibile che dietro l'omicidio D'Antona ci sia anche qualcuno della vecchia guardia Significa che quelle idee attecchiscono ancora» Qui cotto Prospero Galliruui A destra una Immagine dell'assassinio del generale Udo Giorgierl: per quel delitto Paolo Persie netti, 37 anni, brigatista dell'Unione dei comunisti combattenti, è stato condannato a 22 armi e mezzo
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