Primo Levi, se questo è un suicidio di Primo Levi

Primo Levi, se questo è un suicidio Un'indagine del sociologo Gambetta riapre il mistero sulla fine dello scrittore Primo Levi, se questo è un suicidio Ipotesi più probabile la caduta accidentale Forsefu un raptus, non un atto premeditato Giorgio Calcagno L A morte di Primo Levi forse non fu un suicidio premeditato; forse potè essere provocata davvero da un incidente, per un malore improvviso, mentre lo scrittore si affacciava alla tromba delle scale, quel tragico 11 aprile 1987. L'ipotesi, timidamente affacciata dopo la morte, respinta dalle indagini successive concluse da un rapporto di polizia, torna a prendere corpo. La ripropone oggi, con minuziosi argomenti, uno studioso torinese, docente all'Università di Oxford, in un saggio-inchiesta che apparirà nel nuovo numero di Belfagor, la rivista diretta da Carlo Ferdinando Russo, e, subito dopo, sulla Boston Review. L'autore, Diego Gambetta, è un sociologo quarantottenne, autore fra l'altro di un importante libro sulla mafia edito da Einaudi e tradotto a Harvard. Lettore appassionato di Levi da sempre, si e interessato al mistero della sua fine non riuscendo ad accettare le reazioni degli studiosi americani, che la attribuivano a una sconfitta personale dello scrittore, nella sua lotta con la memoria dell'offesa. Sarebbe stata, quasi, una vittoria postuma del nazismo. Gli pesava, soprattutto, il giudizio del New Yorker, per 0 quale «l'efficacia di tutte le sue parole è stata in qualche modo cancellata dalla sua morte». Gambetta è andato alla ricerca di ogni indizio disponibile, mettendo a riscontro le testimonianze degli amici che parlarono con Levi negli ultimi giorni, interpellando medici specialisti della depressione, facendo ispezionare la tromba delle scale di casa Levi, per misurare l'ampiezza del vuoto fra l'ascensore e la ringhiera. Risultato: l'ipotesi più accreditabile sembra essere una caduta accidentale. Levi, uscendo sul pianerottolo poco dopo aver ricevuto la posta dalle mani della portinaia, e sporgendosi forse per richiamarla, avrebbe avuto un capogiro, causato dalle medicine che stava prendendo. Come ipotesi subordinata - e altrettanto legittima, per Gambetta - sarebbe stato colto da un raptus, per una ragione oscura e non più accertabile. In nessun caso, per lo studioso, il suo sarebbe un suicidio pensato in precedenza. Troppi dati lo smentiscono: la lettera che pochi minuti prima aveva imbucato egli stesso per Ferdinando Camon, piena di progetti per il futuro; l'appuntamento che aveva dato a Giovanni Tesio per continuare con lui un'intervista autobiografica due giorni dopo; soprattutto, in un uomo così razionale e consapevole, la modalità stessa della caduta, che Levi non avrebbe mai scelto, se avesse voluto uccidersi. Con i risultati della sua indagine Gambetta tenne una rela¬ zione alla Columbia University di New York, in un convegno per i dieci anni dalla morte di Levi, l'I 1 aprile 1997. E si preparava a pubblicarla quando lesse che il rabbino Toaff, lo stesso giorno, aveva fatto una rivelazione in senso contrario durante un incontro con studenti romani. Toaff disse che Levi, dieci minuti prima di uccidersi, gli aveva telefonato per manifestargli la sua disperazione. «Io non sopporto più la vita», gli aveva detto. Gambetta prese contatto con Toaff, lo incontrò a Roma. Trovò un uomo lucido, che ricordava con precisione tutto. Un solo punto non parve chiaro al ricercatore. Toaff confessò che lui e Primo Levi non si erano mai parlati, prima di quella telefonata. Come era possibile che lo scrittore - ebreo e non credente avesse deciso di chiamare proprio il rabbino, procurandosi il numero di telefono che non aveva, dieci minuti prima di uccidersi? A questo dubbio se ne aggiunge presto un altro, più sostanziale, su cui nessuno aveva mai ri¬ flettuto. L'I 1 aprile 1987 era sabato. E' possibile che quel giorno il rabbino abbia risposto al telefono, contravvenendo a una regola dell'ortodossia ebraica? Gambetta scrisse a Toaff per chiedere chiarimenti, non ne ebbe risposta. Una testimonianza in senso opposto venne allo studioso da Rita Levi Montalcini, la prima, e quasi sola, ad aver sempre respinto la tesi del suicidio premeditato. «Due giorni prima, Levi aveva comperato il pane azzimo, per festeggiare la Pasqua», disse a Gambetta. Perché? Tante domande, tante ipotesi; nessuna certezza. Si riuscirà a fare ancora luce su quel mistero? «Oggi forse non più», dice lo studioso. «Io ho fatto tutto quello che era consentito a un privato cittadino, non ho lasciato nulla di intentato. Considererò il mio saggio un gran successo se riaprirà qualche dubbio. E se potrà rendere accessibile il rapporto di polizia, conservato alla Procura della Repubblica di Torino, che attraverso un avvocato ho chiesto inutilmente di vedere». Per nessun motivo le parole di Levi possono essere cancellate dalla sua morte. Vagliati tutti gli indizi, interpellati gli amici e gli specialisti della depressione. Smentita anche la testimonianza del rabbino Toaff: quel sabato non potè esserci nessuna telefonata Rita Levi Montalclni, la prima a respingere la tesi del suicidio premeditato. A sinistra Elio Toaff e più In alto Diego Gambetta. Primo Levi (nella foto sopra) mori l'Il aprile '87

Luoghi citati: New York, Roma, Torino