VAN DYCK lo spadaccino del colore di Marco Vallora

VAN DYCK lo spadaccino del colore VAN DYCK lo spadaccino del colore Marco Vallora ANVERSA IH A stoccata finale e spavalda di un bordino bianco. Non una trina, un dettaglio ricercato. Ma la coraggiosa J ferita cruda di una pennellata squillante, sfrontata addirittura, nella sua sprezzante sicurezza da spadaccino: è lei, quel richiamo disinvolto e quasi animato ad un lembo di colletto della camicia color della vita, che come un improperio sbotta ad incorniciare un volto vulnerabile nella sua adolescenziale aggressività. E' lei, quella fettina già manetiana di coloremateria, nel suo incandescente biancore che fora il bigio usurato dello sfondo, è lei, quella bianca pennellata che ci accoglie, che ci accalappia, apprensiva, ansimante quasi, nel buio studiato ad apertura della strepitosa retrospettiva del pittore anversose, che compie così nello splendore il suo quarto anniversario di nascita, con un centinaio di telo sceltissime. C'è davvero già tutta, rappresa ed insieme esplosiva, la personalità pittorica di Van Dyck, in quel quadratino scarso di sfida virtuosa e di autocelebrazione anticonformista, che e il suo Autoritratto, insinuante guardarsi nollo specchio delle nostre pupille: i capelli incendiati in un rovo rossastro, il naso nevrile da puledro di razza, uno sguardo di sopra le spalle, come sospettoso, di sfida, eppur titubante. Cortamente c'interroga con gli occhi, ci fruga, esige un repentino responso. Ed è incredibile: Van Dyck non ha che quattordici anni ed è al suo solo secondo quadro «ufficiale»: significativo che si tratti già di un autoritratto, che mette in scena, precocemente, questo suo bisogno smanioso di autoaffermazione. Non ha certo l'istinto indagatore e nero di Rembrandt, semmai è più simile a Bernini: vuole stupire, strappare l'applauso e non ha altro modello accanto a sé che il suo Io scenograficamente ipertrofico. Sta a bottega da Rubens, è vero, ma simultaneamente aprirà poi un suo atelier, con Bruegei iunior, miracolo di imprenditorialità fanciulla. E se lo stesso Maestro non si fa scrupolo coi suoi committenti di assicurare che alcune sue tele «son l'atte dal mio miglior discipolo e tutte ritocco di mia mano», saranno addirittura gii esigenti gesuiti a pretendere che alcune pale d'altare in gestazione siano per contratto «completate in grande» dal giovane prodigio. Ed è magnifico, nelle prime sale, veder albeggiare e subite maturare, pur tra esitazioni e tempeste ormonali (che forse rispecchiano anche certe sfuriate di bottega) l'istintivo genio pittorico di Van Dyck, che non è un erudito raffinato come Rubens, non ha avuto il tempo di formarsi una cultura classica, non parla nemmeno il latino e se la cavicchierà a mala pena col francese con principi e papi. Appena il padre, ricco mercante di stoffe, è inciampato in un crollo economico Anton si butta sulla pittura con una foga istintiva, manifestando subito quell'«intelligenza del chiaroscuro» che gli risconosce il teorico De Piies. Rubens studiava le sculture classiche, Van Dyck preferisce parlare un linguaggio più sgombro, spiccio, moderno e «parla» benissimo le lingue della pittura, è un poliglotta degli stili, conosce (e colleziona) Tintoretto, Bassano, i Carnicci, ma il suo vero idolo è Tiziano. E' una reale ossessione: quando piomba, vitalissimo e sprezzante a Roma non si rende nemmeno conto che intorno a lui Bernini, Pietro da Cortona e Domenichmo hanno già gettato le reti del «loro» barocco, lui corre per la città alla ricerca del minimo Tiziano nella chiesetta più sconosciuta. Lo si avverte fisicamente: è come un arciere, che prenda respiro e rinculo, caricandosi della forza di tutta la pittura che l'ha preceduto per poi scoccare la sua freccia magnifica, infallibile. E come tutti i grandi pittori, è l'irruzione imprevidibile della Vita entro il marmo della Pittura che lo esalta. Basta comparare il suo Ambrogio che ferma Teodosio con quello di Rubens: sulla sinistra esplode, scodinzolante, metafora della sua pittura che annusa la vita, un cagnino che altre volte visiterà festoso e «firmerà» le sue tele. C'è spesso (come in Hals e nel Greco) un'atmosfera di provvisorio, d'istantuale nella sua pittura, che sa cogliere così bene la naturalezza insofferente dei bambini pur fieri di esser ritratti: come quel simbolico lembo ribelle di tappeto, in una casa patrizia genovese, che rilutta a trovare il suo spazio accanto a una colonna, e pare sollevarsi come un serpente meantato. E c'è anche malizia, probabilmente, nel raccontare quei committenti esigenti e avidi: pur con tutti quei nomi, la Marchesa Paolina Attorno Brignole-Sale non dev'essere stata così generosa con lui. E il pittore si vendica, con la sua arte celestialmente «pettegola», che è un vero censimento sociale. Tutti gli sforzi e gli sfarzi si condensano in quell'abito a filigrana d'oro. Intorno, una sobrietà sparagnina un po' sospetta: uno sfondo di colonne fin troppo povere, un tappeto rosso che ha qualcosa di posticcio, di improvvisato (come in certe fotografie d'inizio secolo, con la zia che solleva un lenzuolo per simulare lo sfondo) e in primo piano una modesta, incongrua seggiola rocchetto, appena posata dalla serva scostante e mal pagata (che hai l'impressione d'intravedere scappar via orripilata dall'obiettivo del pittore) mentre bisticciando vi si posa sopra, costretto, il malmostoso pappagallo, simbolo dell'esotismo di casa. E quando per la famiglia Lomellini egli deve «girare» una sorta di spot edificante tipo Forza Italia dogale, con i figlioli banchieri pronti a partire per la guerra e un sentore di buon governo ostentato sotto le gonne di Mammà, ecco il colpo di genio. Per non rischiare i conflitti di competenza (altro rigore, allora!) i dogi non potevano essere ritratti: ma ecco che Van Dyck ha un'intuizione sublime, degna di Velazquez. Il padre è presente comunque, grazie allo sguardo allarmato del bambinetto che chiede il suo consenso, distraendosi e guardando fuori della tela. E rendendo «pittura» anche quell'ectoplasma virtuale. Van Dyck. Anversa. Museo di Belle Arti. Tuttii giorni dalle 10 alle 18 Fino al 15 agosto. Catalogo a cura di Cristopher Brown edito in Italia da Rizzoli A quattro secoli dalla nascita Anversa celebra il «pettegolo» maestro d'una pittura che annusa la vita Due opere esposte ad Anversa: qui accanto f bambini della famiglia Balbi. 1625 Sopra Sansone e Dalila. 1630

Luoghi citati: Anversa, Cortona, Italia, Roma