Nel Kosovo un bordello per i carnefici

Nel Kosovo un bordello per i carnefici Nel Kosovo un bordello per i carnefici reportage Vincenzo iBKsandorl Inviato a TIRANA Le donne si stringono le une alle altre, le giovani a quelle più mature, in un gesto inconscio di autodifesa. Non parlano con nessuno, ti fissano negli occhi e solo in quel momento intuisci quanto profonda sia la loro angoscia. In Konferenca e Pezes, la strada larga che da Tirana porta al mare, c'è la moschea !iaxhi Hafiz Dashi, ed è qui, in due stanze al secondo piano, il loro ultimo rifugio. Per queste che sono le più sventurate fra le vittime, che prima di essere espulse dal Kosovo son state violentate, e perciò si sentono «colpevoli», si tiene una terapia di gruppo per tentare di far superar loro uno choc che rischia di non abbandonarle mai più, si cerca di farle parlare, di raccontare e, cosi, di liberarsi dall'incubo. Non sarà cosa né facile né breve, spie¬ ga Merita Raspolli, un ingegnere arrivata da Pristina che si è inventata psicologa e lavora con ima dedizione straordinaria. Al corso organizzato da «Centro del consiglio per la donna» partecipano in 90, oggi il gruppo è di 15 e sono presenti anche alcuni bambini, i figli, considerati strumento unico ed efficace in questo delicato tentativo di recupero. Prima non parlavano, racconta Merita, poi lo facevano soltanto fra loro, infine si sono un po' aperte, ma solo con noi, che siamo kosovari. Con gli uomini, anche con quelli della loro famiglia, certi temi neppure li sfiorano. E la fede, sospira l'ingegnere, «aiuta ma fino a un certo punto, perché questo non è un problema solo religioso». In tre hanno raccontato di una stessa vergogna, di come i serbi hanno trasformato un albergo di Pec in un postribolo nel quale trascinano le donne razziate nelle case o per le strade. «Le parole dobbiamo strapparle a una a una e, del resto, non appena ci accorgiamo che ricordare fa loro trop¬ po male, interrompiamo», dice Merita. Prima ha buttato lì un frammento di notizia X. T„ 25 anni, di Krus, nubile. Era arrivata nella notte tra il 1° e il 2 aprile al passo di Morini. «Cihanno costretto, dicevano che ci avrebbero ucciso, che quello era il solo modo per rimanere in vita. E io ora credo che forse era meglio morire». Poi ha detto qualcosa A. H„ che ha 27 anni, sposata, tre figli, di Orahovac. «Ci avevano avvertito che i serbi stavano arrivando e noi siamo usciti per strada, per fuggire. Troppo tardi, quelli avevano già bloccato tutto. Avevano fermato le auto e i trattori coi rimorchi. Qualcuno mi ha afferrato e scaraventato in uno di quelli e hanno fatto scendere le persone che c'erano sopra. E' andata così, con i miei che non vedevano ma sentivano. "Dovresti venire a Pec", ha detto uno, ma poi mi hanno lasciato andare e sono, arrivata alla frontiera, a Morini». Da quell'albergo, ha raccontato N. T., che ha 23 anni, non è sposa¬ ta ed è originaria di Pec, lei è fuggita nella prima settimana di aprile, dopo esserci rimasta cin- 3ue giorni. Ricorda bene il nome eli'albergo: Hotel Metohja. «Era un buon albergo, con il nome segnato alla pagina 405 dell'hotel travel index», ha detto. Non è difficile immaginare come lo abbiano trasformato i serbi. «Ogni momento ti chiamavano e tu dovevi esser pronta. Cinque, sette volte al giorno, anche dieci, e ogni volta credevi di morire, di non farcela più. No, non ti sentivi un oggetto; per quelli, soprattutto se costosi, talora c'è una qualche forma di rispetto». Erano in trenta, o, forse, quaranta le donne in quel lager a quattro stelle, alcune lontane ancora dai 18 anni. Ogni tanto una spariva, sostituita da un'altra. Una notte, quando ancora il cielo era nero e le strade erano deserte, N. T. è scivolata fuori da quell'inferno nell'inferno. I serbi, ha detto, ormai li sentiva a distanza e così ha potuto evitarli: si è nascosta in una colonna e ora dopo ora ha camminato fino al confine. Khristiana Moore, psichiatra nordamericana di Medici senza frontiere che per settimane, a Kukes, ha lavorato anche per strappare le donne violate ai loro traumi, avverte che è troppo presto per affermare che «lo stupro è usato come arma di guerra». Di certo l'hotel Methoja di Pec o Juello che chiamano il campo ella violenza, localizzato a metà aprile a Djakovica, non sono sorti per l'iniziativa privata di qualche farabutto in divisa militare o paramilitare: sembrano piuttosto il frutto di una programmazione feroce e minuziosa. Lo stesso Robin Cooke, ministro degli Esteri bri tannico, ha ricordato come «arri vino continue informazioni che spiegano come le donne vengano separate dalle colonne dei depor tati e trascinate nel campo di Dja kovica dove sono messe a disposi zione dei soldati serbi». Anche questo finirà sul conto che il Tri bunale per i crimini di guerra pre sentori» a Belgrado. E non ci si ac contenterà di individuare gli au tori degli stupri, garantisce Paul Risley, del Dipartimento della Giustizia di Washington, che la vora per il Tribunale dell'Aia «Arriveremo al più alto livello possibile, Milosevic incluso». Una donna kosovara piange subito dopo aver attraversato la frontiera con l'Albania Decine di giovani costrette a soddisfare i militari serbi

Persone citate: Dashi, Kukes, Milosevic, Moore, Morini, Paul Risley, Robin Cooke

Luoghi citati: Albania, Belgrado, Kosovo, Tirana, Washington