Sessantesimo giorno di bombe Le tenebre su tutta la Serbia

Sessantesimo giorno di bombe Le tenebre su tutta la Serbia L'AGONIA DEL PAESE SOTTO IL DILUVIO DI FUOCO DELLA NATO Sessantesimo giorno di bombe Le tenebre su tutta la Serbia reportage Giuseppi) Zaccaria inviato a BELGRADO Come per tutte le grandi occasioni stasera al «Caffè Gaudi», luogo di ritrovo della gioventù universitaria, si celebra a lume di candela. Luci incerte brillano anche dalle vetrine del «Cafè Soho», il ritrovo alternativo, dai palazzoni grigi della Nuova Belgrado che guardano gli alberghi occidentali come un barbone alle vetrine del ristorante di lusso. Tutta la città è al buio, tutta la Serbia: il modo più proprio di segnare una scadenza che nessuno - se non forse, i serbi avrebbe immaginato. Sessanta giorni di bombardamenti consecutivi. Prima che tutto cominciasse da noi si affermava, con l'orgoglio del più forte, che ogni giorno di incursioni avrebbe ricacciato indietro la Serbia di dieci anni, e dunque oggi a Belgrado dovremmo aggirarci fra tanti Lazar appena spazzati via dal Turco e piangenti «devojke» chine su corpi e menti devastate dei loro guerrieri. Invece questo non accade, e nessunoriesce a spiegarsi il perché. Se si può tentare di esprimerli in cifre, i due mesi di bombardamenti della capitale significano centoquattro morti civili, un numero indefinibile di «ictus» ed infarti, quattro ospedali colpiti, e poi palazzi del governo e dell'amministrazione distrutti, grattacieli che occhieggiano anneriti sul centro, il pane che comincia a scarseggiare, lunghe code davanti ai negozi per il razionamento di zucchero ed olio, 108 autobus ancora in funzione sui milletrecento dell'anteguerra, il teatro dei bambini devastato, decine di migliata di metri quadrati di vetro sparsi per le strade, la plastica che comincia ad apparire alle finestre e la tragica battuta che dipinge questa soluzione d'emergenza: «Windows '99». Eppure i numeri non bastano a spiegare quel che accade, perché ogni mattina la città si scuote, osserva i danni o le colonne di fumo che le si levano intorno, scrolla le spalle e ricomincia. Un tempo lo faceva con un sorrìso di sfida, adesso non più, un tempo partecipava a sfilate e concerti, viveva di notte occupando ponti e parchi, esponendosi all'ottusa violenza che cadeva dal cielo con la grinta di chi pensa «tanto non lo faranno mai». Ecco, questa forse è l'unica convinzione che sembra caduta, cioè l'idea che le incursioni della Nato non possano prendersela più di tanto con i civili. Adesso le notti non sono più un impasto tra feste e presidi ma solo lunghi percorsi bui interrotti dai «boom» delle incursioni, il primo «biade out» di aprile ha fatto interrompere i concerti sul ponte di Brankov e nessuno li ha più ripresi. L'altra notte, nel pieno dell'oscuramento, le incursioni che si accanivano contro la centrale elettrica di Obrenovac, alla porte della capitale, il deposito di carburante della Jugopetrol, le linee tramviarìe di Radnica (altro strano obiettivo militare) hanno colorato il cielo come non accadeva da settimane. Un lungo, ininterrotto bagliore arancione che avvolgeva la città come un tardivo tramonto. Qualche esperto spiegava che tanta vividezza era dovuta alla grafite: su Knez Mihajlova comincia a scolorirsi là scritta che dice«cretini, la grafite serve per scrivere e non per cancellare...». Comincia a fare caldo, qui l'estate è immediatamente afosa: ogni mattina i parchi di Tasma- jdan e Kalemegdan traboccano di gente. Tutti vogliono uscire dal buio, dalla città oscurata, dal chiuso di case prive di luce e d'acqua per vivere una città che la mancanza di traffico rende surreale. Uopo sessanta giorni di attacchi la vita qui sta perdendo altri pezzi. A Novi Beograd, il quartiere dei grattacieli, c'è gente che non esce più di casa da settimane. Gli anziani, soprattutto: per famiglie che vivono al decimo o al quindicesimo piano avventurarsi lungo le scale è impossibile. Gli ascensori sono bloccati, se l'energia ricompare a tratti è debolissima. Continua a svilupparsi quella solidarietà di gruppo, d'emergenza che anni fa s'era vista nascere e durare a Sarajevo, e spinge la famiglia più giovane ad aiutare l'anziana, i ragazzi a salire le scale con secchi d'acqua per il vicino. «Nema struje», niente elettricità, in questi palazzoni significa anche «nema vode», niente acqua. I sentori che emanano dalla folla dei parchi bastano a dimostrarlo. Ed assieme con l'energia, con l'acqua, con le ultime tracce della modernità cominciano a scomparire anche generi di prima necessità. Il latte, per esempio: veniva in gran parte dalla Vojvodina, la distruzione dei ponti e la mancanza di benzina rende la distribuzione impossibile e l'unica centrale di Belgrado, la «Pkb», non basta. Non esiste più un grano di caffè, le file ai chioschi delle sigarette si fanno chilometriche. Mancano le medicine, fra una settimana le cliniche ginecologiche saranno prive anche dei disinfettanti. Altri piccoli smottamenti della vita, altre tappe della decadenza. Sui giornali gli appelli patriottici cedono il passo ad una rassegna della rassegnazione. Manca questo, manca quest'altro. Il direttore della clinica psichiatrica, Zoran Ilic, afferma sconsolato che l'indice di salute mentale della metropoli sta precipitando. Il 96 per cento dei belgradesi, dice un sondaggio di «Vreme», teme per il futuro, il 91 sente le conseguenze psichiche dei bombardamenti, il 72 per cento soffre per non potersi muovere nella città, il 64 per cento esce di casa solo se assolutamente necessario. Sempre più gente soffre di sudorazioni improvvise, palpitazioni e dopo lo «choc» sprofonda in un'apatia pericolosa. Dalle rubriche di un settimanale risulta che Belgrado sta riscoprendo i rapporti fra vicini di pianerottolo e per un altro verso torna a spaccarsi come ai tempi dell'Impero Ottomano. Allora il Danubio e la Sava facevano da confine, la rocca di Kalemegdan guardava arcigna dal versante turco il quartiere di Zemun, avamposto dell'Austria-Ungheria. Adesso la gente evita di traversare i ponti, teme di restare tagliata fuori. Se una di queste notti gettassero giù il ponte di Brankov o quello di Gazela, il salto all'indietro sarebbe completo. Al «Bioskop Jugoslavia» continuano a proiettare «La vita è bella». Prima si programmava al «Balkan», e prima ancora allo «Jadran». Elettricità permettendo, il lavoro di Benigni sempre essere il più visto degli ultimi dieci anni. La gente comincia a trasformare la sceneggiatura in vita. Arrivano le prime bombe, i bambini piangono e i genitori fanno: «Ma no, è solo un gioco...». A Belgrado manca anche l'acqua Introvabili il latte e i medicinali Bloccati gli ascensori Nei grattacieli c'è gente che non esce di casa da settimane Slobodan Miloscvic Nella foto grande una centrale elettrica alla periferia di Belgrado colpita ieri dagli aerei Nato: per la quarta volta la Jugoslavia è precipitata nel buio

Persone citate: Balkan, Benigni, Ilic, Slobodan, Soho