«L'homo sovieticus è già tornato» di Barbara Spinelli

«L'homo sovieticus è già tornato» «L'homo sovieticus è già tornato» Il grido dei democratici russi: Europa sei cieca segue dalla prima Barbara Spinelli inviata a MOSCA KOVALJOV prese le difese dei ribelli, e con determinazione si presentò al mondo come il. grande accusatore delle pulizie etniche russe. La sua voce si udì da Grozny rasa al suolo, e poi nelle citta occidentali e nelle istituzioni parlamentari europee. Ma fu voce impotente, negletta. Diceva cose che europei e americani non volevano intendere: che le guerre razziali di Milcsc-vic avevano già fatto proseliti a Mosca fin dalla guerra in Croazia e Bosnia. Che la storia non si era felicemente conclusa dopo la caduta dei muri comunisti, ma portava in grembo una Russia di nuovo minacciosa. Che l'Europa si scavava la fossa con le sue indifferenze, i suoi cedimenti, le sue accidie. Kovaljov ne è ancor oggi convinto, in pieno conflitto del Kosovo. Non è ostile alla controffensiva dell'Alleanza la ritiene «ineluttabile», considerata la pericolosità di Milosevic - ma è persuaso che l'intervento sia tardivo: che trop- Pi =nni siano trascorsi, in cui Occidente ha permesso al nazionalismo panserbo di estendersi e al nazionalismo slavofilo russo di radicarsi. E' persuaso che gli occidentali e l'Europa facciano una guerra senza idee coerenti, senza percezione delle vaste complicazioni , russe,. senza coscienza dei disastri che possono na' scere non solo e non tanto da 1 un .conflitto ; mal condotto o mal pensato, quanto da una pace conclusa nella precipitazione, nell'incuria: «Questa guerra rischia di divenire un circolo vizioso, come in Vietnam. Anche allora si perse rapidamente il ricordo dei motivi che avevano spinto gli americani a intervenire: si dimenticò la crudeltà dei Vietcong, la loro penetrazione totalitaria nel Sud del Paese. Poi venne la pace, e a causa di queste smemoratezze fu una pace ancora più orrenda della guerra: centinaia di migliaia di profughi si gettarono in mare, per sfuggire o perirvi o esser fucilati alle frontiere. L'America tolse le tende, e migliaia di vietnamiti finirono nelle prigioni o nei campi del comunismo vietcong. Lo stesso schema minaccia di ripetersi. Anzi si è già ripetuto: l'accordo di pace sulla Bosnia non ha estirpato il separatismo serbo-bosniaco, e ben pochi profughi musulmani sono potuti tornare nelle case incendiate, nei propri villaggi serbizzati». Le incurie occidentali sono sempre quelle, solo che la guerra della Nato si accompagna oggi a un'immensa negligenza delle malattie russe. E' la politica di Kissinger che di fatto viene applicata, secondo l'ex dissidente: «Una politica che dà per sicura la perdita della Russia, che la considera una nazione per così dire "sbagliata". Che la mette tra parentesi, e rinuncia ad immetterla nel destino d'Europa. Ma la Russia resta, come problema nostro e vostro. E' la croce che l'Europa non può fare a meno di portare». Siamo andati a trovare Kovaljov nel suo piccolo ufficio alla Duma, e 1 impressione è netta di un uomo solo nelle sue inquietudini, solo nella sua memoria allarmata del comunismo: un uomo eccentri- co, già messo da parte. Ecco una scheggia di pensiero europeo e cosmopolita, vagante in un universo russo che tende a rinchiudersi, a censurare le responsabilità del passato, a farsi tentare dall'antica, sempre viva vocazione slavofila. Che vede in ogni mossa occidentale una volontà deliberata di umiliare la grande nazione orfana del suo impero. Gli amici di Kovaljov lo paragonano a Sacharov, negli ultimi mesi di vita: quando Gorbaciov cominciò a spazientirsi con il dissidente che egli stesso aveva graziato, e spegnendo arbitrariamente il microfono gli impediva di finire i discorsi alla Duma. Cosi flebile è la voce di Kovaljov, rispetto all'eloquenza terrigna, populista, furbescamente neo-nazionalista, della maggioranza parlamentare comunista. Poco prima di incontrare l'ex dissidente abbiamo parlato con i rappresentanti di questa nuova Russia nazional-comunista, e abbiamo visto come la debolezza del Paese possa infondere una paradossale forza, quando parla il linguaggio del ressentvment e dell'antioccidentalismo. Era così anche nel secolo scorso, quando nacque il movimento slavofilo con il medesimo scopo di oggi: con lo scopo di - scrive Michel Heller nel suo splendido libro sulla Sto¬ ria della Russia - di «reagire alle sfide economiche dell'Europa occidentale con una risposta ideologica, trasformando la debolezza economica in un segno di superiore potenza spirituale, e morale». Per preservare i propri poteri, le nomenclature neocomuniste fingono lo stesso vocabolario fieramente autarchico della slavofilia, fanno la corte a una Chiesa ortodossa che esalta forme estreme di nazionalismo slavo, nutrono il Paese sofferente - mortificato e decer ebrato da oltre 70 anni di comunismo - con ir pane di quelle che si chiamavano «questioni fatali», nella prima parte dell'Ottocento: questioni fatali e apocalittiche attor, no alla missione mondiale della Russia, alla sua vocazione occidentale oppure orientale, alle umiliazioni o rinascite della sua Anima inimitabile. I comunisti con cui parlo decretano un a'Storia radicalmente nuova, una tabula rasa che cancella ogni traccia del passato. «Così come esiste adesso la Russia e non più l'Urss, così siamo cambiati noi comunisti russi rispetto ai comunisti dell'Unione Sovietica», mi dice Mikhail Gutseriov, uno dei vicepresidenti della Duma. Lo Stato russo ricomincia ogni volta da zero, proditoriamente: non è mai responsabile d'alcunché. Non era responsa- bile dello Stato zarista, nel 1917. Non è responsabile dello Stato comunista, alla fine del Novecento. Responsabili e colpevoli sono sempre gli occidentali, che strìngono d'assedio la nazione: responsabili delle catastrofi del Paese, del capitalismo mafioso che lo tormenta. E il maggior peccato di Eltsin è stato di distruggere la società, pur di ingraziarsi questo Occidente. Il deputato Podberezkin, ideologo del comunismo slavofilo e nazionalista, mi parla appunto del «crìmine di Eltsin, che è stato quello di attuare, tramite il liberismo economico, un autentico genocidio demografico della propria popolazione». Quanto all'Occidente, «è ovvio che non si preoccupa più in alcun modo dell'opinione russa, che l'America agisce ormai attraverso la Nato assumendosi responsabilità planetarie. Tutto quel che si è sviluppato ultimamente è nell'interesse finanziarìo-strategico del gendarme statunitense: dalla nascita dell'Euro alla guerra contro la'Serbia». Sicché alla Russia non resta che occuparsi esclusivamente dei propri interessi: «Per voi italiani non era molto diverso all'inizio degli Anni Sessanta: cambiavate di continuo i governi, eravate totalmente dipendenti dall'alleato americano, e vivevate nel sentimento, doloroso, di chi ha subito una sconfitta bellica». Precisamente queste involuzioni teme Kovaljov: «Temo questa sindrome della sconfitta, che le élite russe non riescono a trasformare in opportunità di rinascita, di memoria crìtica, di ricostruzione giuridica, economica, morale. Eppure la storia dice proprio questo, al mio Paese: dice le sciagure che scaturiscono dalle vittorie, le speranze che germogliano sulle sconfitte. La Russia zarista trovò le forze di riformarsi, grazie a due guerre perdute: prima in Crimea, poi in Giappone. Mentre dalla vittoria del '45 non nacquero che disgrazie: l'assoggettamento violento di mezza Europa, l'aggressione contro l'Ungheria, la liquidazione della Primavera di Praga. Tutti questi eventi sono echi della grande vittoria del '45, e la stessa antichissima idea asiatica che fa ritorno è un modo per evitare la consapevolezza della sconfitta, e la necessità di un nuovo rapporto con l'Europa. E' un'idea che si incarnò nelle correnti sia volile dell'Ottocento, e che si salda in maniera più che naturale, senza soluzioni di continuità, con l'esperienza comunista. E' un'idea che esalta il collettivo a scapito della persona, la filosofia agglutinante del Noi a scapito della coscienza responsabile, libera, dell'Io. E' un'idea che diffida istintivamente della cultura europea dei diritti individuali». Ma Kovaljov ha parole eccezionalmente dure verso quest'Europa che con dieci anni di ritardo scopre l'esistenza di uno speciale virus post-comunista denominato Milosevic. Che neppure si è accorta delle pulizie etniche in Cecenia, compiute sulla scia dei successi serbi. Che ha mancato di aiutare la Russia a liberarsi delle sindromi catastrofiste, e a fecondare le sconfitte territoriali piuttosto che patirle. Il governo russo ha potuto combattere la sua guerra di sterminio in piena impunità - mi dice Kovaljov - senza mai avere l'impressione di agire sotto gli occhi dell'Europa. Eppure Clinton e Kohl lo sapevano: non era un segreto per nessuno, che Eltsin si sarebbe fermato se i responsabili occidentali avessero avuto una posizione diversa, non cedevole né pavida. Non ci volevano particolari sanzioni. Bastava che i leaders europei ripetessero in ogni discorso, cocciutamente come Catone su Cartagine, che Cecenia non delenda est: che la Cecenia non andava distrutta: «Hanno mancato di farlo, la loro indifferenza è stata mostruosa, e ora hanno di fronte le conseguenze del loro compiacimento benestante, della loro pigrizia, della loro miopia: hanno in Cecenia un integralismo musulmano con possenti radici antioccidentali; hanno un nazionalismo a Mosca che sente di poter agire impunemente contro le minoranze non slave; hanno una democrazia russa che stenta a parlare con l'Europa un linguaggio comune, condiviso, capace di superare gli arcaismi delle politiche sovrane, intangibili, degli Stati». Secondo Kovaljov esistono infatti sciagure che non sono più contenibili con gli strumenti dello Stato sovrano classico. Che per forza di cose necessitano l'incorporamento della Russia nel destino d'Europa. La proliferazione nucleare, le pulizie etniche che si moltiplicheranno nel mondo, i disastri ecologici come Cernobil che non si curano delle frontiere geografiche: a mali di questo tipo si può resistere solo trasferendo parte delle sovranità statali a organi sovrannazionali, dando consistenza al diritto di ingerenza, riducendo alcuni precisi poteri della sovranità: in particolare, il potere di reprimere le proprie minoranze etniche o religiose. L'Onu potrebbe essere quest'organo sovrannazionale, se non fosse congegnata in modo tale da impedire - tramite l'assurdità del liberum veto - qualsivoglia decisione o progetto di pacificazione. E certo: sarebbe bene che un giorno qualcosa di simile alla Nato riempisse tale vuoto. Che l'Occidente europeo «avesse meno vergogna della propria cultura, e cominciasse a tradurre le sconnesse, molli parole della democrazia nel cristallino linguaggio di una giurisprudenza internazionale». Ma la Nato non ha ancora la legittimità, per divenire una sorta di governo mondiale: «Non è un organo elettivo, o comunque riconosciuto da un numero sufficientemente ampio di nazioni. E quando agisce può esser facilmente sospettata di usurpazione, esattamente come succede in Kosovo». Secondo Kovaljov, l'Europa ò ancora lontana ('.all'aver debellato il virus Milosevic, in ex-Jugoslavia come in exUrss. «E' ancora lontana dall'aver appreso la lezione delle guerre in Croazia, poi Bosnia, poi Cecenia, infine Kosovo». Non è la Russia, a vivere sotto lo sguardo severo, correttore, deli Occidente. Siamo noi condannati a vivere - sotto lo sguardo russo - la sopravvivenza d'Europa o quello che Kovaljov chiama: il potenziale suicidio della sua civiltà. Kovaljov, l'uomo che denunciò la pulizia etnica in Cècenia e difese i ribelli, ora denuncia: temo il revanchismo «Gli occidentali hanno sbagliato lasciando che Grozny fosse rasa al suolo Hanno concesso una specie di impunità al nostro dilagante nazionalismo» Nostalgici dello Zar baciano un ritratto di Nicola II contornato di icone a Mosca Sopra, Sergej Kovaljov