«Un simbolo dell'Italia che funziona» di Guido Tiberga

«Un simbolo dell'Italia che funziona» D'Antona lavorava nel Dipartimento di Scienze politiche che era stato di Bachelet e Moro «Un simbolo dell'Italia che funziona» Cofferati: era l'uomo delle regole Guido Tiberga roma" «E' un tentativo di destabilizzare la sinistra che sta al governo, di colpire i simboli delle cose che funzionano...». Le parole di Sergio Cofferati, pronunciate in serata sul marciapiede di via Salaria, sulla portone di casa D'Antona, sono le ultime di una lunga serie in cui l'elemento ricorrente è il terrnine «simbolo». E oggi, in effetti, Massimo D'Antona può essere considerato l'icona di molte realtà, diverse ma collegate l'una all'altra. Nelle parole di chi lo ricorda, D'Antona è il simbolo della «competenza al servizio del mondo del lavoro», come dice Sergio D'Antoni, che non a caso risale con la memoria alle morti di Ezio Tarantelli e Roberto Ruffilli, «ammazzati per le stesse ragioni». O della «sinistra intelligente», come spiega commosso Gino Giugni, pure lui docente di diritto del Lavoro e pure lui colpito dal terrorismo: «gambizzato dalle Br», come si diceva allora di coloro che riuscivano a raccontarla. 0 ancora della «solidarietà attiva», come rivela la decisione, presa da tempo insieme alla moglie e alla figlia, di adottare due bambini scampati alla tragedia del Kosovo. D'Antona è «l'uomo delle regole», come dicono nel palazzone della Cgil, dove gli impiegati ne parlano come di un uomo semplice e cordiale, «al punto da poter essere confuso con un compagno qualunque...», ma anche l'uomo «della mediazione», «della concertazione», «del patto di Natale», «della regolamentazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici». Tutti elementi che, nella percezione distorta di chi ha armato gli assassini, hanno finito per farlo apparire come un «nemico dei lavoratori». Come un uomo da colpire. Eppure fino a ieri mattina, al di fuori dalla cerchia degli addetti ai lavóri, orano pochi coloro che potevano dire di sapere veramente chi fosso Massimo D'Antona, il cinquàntunérihe professore di Scienze politiche che lavorava nel dipartimento che era stato di Vittorio Bachelet e di Aldo Moro. Che da anni faceva parte della consulta giuridica della Csril. Che era stato sottose- grelario ai Trasporti nel governo tecnico di Lamberto Di ni. Che era nel consiglio d'amministrazione degli Aeroporti di Roma. Che si stava occupando del progetto di riorganizzazione delle Ferrovie. Che da mesi lavorava fianco a fianco con Antonio Bassolino, che ancora mercoledì lo aveva incontrato al ministero, per definire gli ultimi dettagli di quel Piano per lo sviluppo e l'occupazione che sarà presentato oggi al Consiglio dei ministri. Una cosa D'Antona non era, né forse avrebbe voluto essere: una celebrità, un personaggio da riflettori. Ed è proprio questa sua natura di lavoratore nell'ombra, matrice determinante ma riservata delle decisioni di ministri, politici e sindacalisti, senza paradossi, accentua la preoccupazione di chi gli stava vicino: il ricordo di molti va a Tarantelli, il giurista del lavoio assassinato nell'85 sui gradini della facoltà di Scienze Politiche. Altri pensano a Vittorio Bachelet, ucciso nell'80, che in facoltà occupava un ufficio poco lontano da quello di D'Antona. «Ma loro erano più esposti», diceva nel primo pomeriggio Giuseppe Casadio, quando in Cgil si sperava ancora che dietro la morte del professore non ci fossero i terroristi, «perché altrimenti dovremmo ammettere di avere davanti persone che sanno chi e dove colpire per tenere nel niirino il mondo del lavoro». Franco Bassanini, che aveva voluto D'Antona al suo fianco nella battaglia alla burocrazia, non ha dubbi: «Era un obiettivo strategico - dice -. Hanno colpito un uomo che ha dato un contributo altissimo all'ammodernamento del nostro Paese. La riforma del lavoro e della dirigenza pubbUca, la legge sulla rappresentanza sindacale del pubblico impiego, sono frutto delle sue idee...». Sui giornali, D'Antona ci finiva poco, e sempre da tecnico. Magari per spiegare le priorità per rilanciare l'occupazione, come fece qualche settimana fa sull'«Unità»: far emergere «senza forme punitive» il lavoro nero, che al Sud esercita un'irresistibile «concorrenza sleale». Concentrare gli investimenti sull'inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, «perché siamo gli unici in Europa a spendere 15 mila miliardi per sostenere il reddito di chi perde il lavoro e nulla o quasi per sostenere il reddito di chi il lavoro lo cerca». Fare chiarezza sulle nuove forme contrattuali: «Perché noi discutiamo molto sulla flessibilità in uscita, sui licenziamenti. Ma perdiamo di vista che la flessibuità in entrata si è ricavata uno spazio rilevante, ma fatto di regole poco chiare. E quindi inique...». Proposte concrete, fattuali. Non a caso al sindacato lo definiscono un intellettuale calato nella realtà. Uno che era al tempo stesso «stu¬ dioso e uomo d'azione, come dimostra il progetto di scrivere un testo unico della legislazione sul lavoro, condotto con i colleghi della consulta giuridica della Cgil. All'Università, ne parlano come di «uno dei più importanti giuslavoristi italiani dell'età di mezzo», dice il professor Fulco Lancaster, direttore del dipartimento di Teoria dello Stato. «Autore di opere importanti sulla reintegrazione del posto di lavoro, l'occupazione flessibile, il diritto sindacale, lo statuto dei lavoratori del 20 maggio 1970», giusto ventinove anni fa. Ma la definizione più commossa arriva da Carol Beebe, la vedova di Ezio Tarantelli: «Sono tornati a colpire una persona che si occupava in modo creativo dei problemi del lavoro. Una persona che aveva il coraggio di trovare strade possibili per cambiare le cose. Una persona come Massimo D'Antona, e com'era mio marito». Il ministro del Lavoro, Bassolino, davanti alla sala mortuaria del Policlinico. Alla sua sinistra, Gino Giugni. Di fronte al ministro, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Bassanini, altro amico di D'Antona Massimo D'Antona, il consulente del ministero del lavoro ucciso ieri a Roma

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