«Torno al mio lavoro, la pace»

«Torno al mio lavoro, la pace» IL RITORNO DEL GRANDE TESSITORE «Torno al mio lavoro, la pace» Peres: sì, farò parte del nuovo governo intervista Fiamma Nlransteln TEL AVIV Una delle mosse vincenti di Ehud Barak in campagna elettorale, è stato recuperare in pieno il rapporto con Shimon Peres che era rimasto a lungo in ombra, mostrare al mondo che il grande artefice della pace era completamente dalla sua parte, che le vecchie ruggini del passato, pure resistenti, erano state lavate. E adesso Peres, che è il numero due della lista vincente e che sarà presto con tutta probabilità ministro ancora una volta, può riprendere la marcia interrotta nel 1996. La sua linea diventa di nuovo quella del suo Paese dopo tre anni di solitarie battaglie. Cominciamo dallo sconfitto, da Netanyahu Due parole per congedarsene? «Tre anni fa era una promessa per molti, oggi una delusione per tutti... E in conclusione di un mandato molto contraddittorio e mal gestito, una campagna elettorale veramente disgraziata». Dunque parliamo del presente e del futuro. Molti scrivono che il voto che ha portato Barak al potere, sia più un plebiscito contro le malefatte di Bini che non a favore del processo di pace. E' una malignità? «Ambedue gli elementi sono pre¬ senti in questo voto. Ma è del tutto evidente che si tratta di un mandato per la pace. Le due parti che erano le più avverse al processo di pace infatti sono state duramente punite, n partito di Benny Begin che, secondo una mia valutazione, aveva 8 mandati è ridotto a 3, e il partito nazionalista religioso che ne aveva 9 ora ne ha soltanto 5». Quali sono le mosse più importanti da fare per riprendere il cammino della pace? «L'accordo di Wye Plantation è il grimo punto. Secondo me, Arafat a mantenuto in gran parte ormai la promessa di combattere il terrorismo in cambio del ritiro territoriale, quindi, esso va messo in atto prima possibile. In una trattativa esiste una parola sola, pena la perdita della reciproca fiducia che è il bene principale per la pace. Proprio quello di cui Netanyahu mancava completamente. Successivamente, bisogna riprendere i negoziati con i palestinesi così da giungere a una soluzione permanente. Poi, ricominciare i colloqui con la Siria, e infine, rimettere in piedi la cooperazione economica e la lotta comune al terrorismo. Per questi due punti esistevano speciali conferenze che devono essere subito ripristinate». Lei crede a Barak quando egli dice di poter organizzare il ritiro dal Libano entro un anno? «Sì, si può fare. Sarebbe meglio dopo una trattativa con la Sina; ma se questo non sarà possibile, io so¬ no per il ritiro in ogni caso». Mi sembra che lei non abbia gran fiducia nel rapporto con i siriani. «Sono di una lentezza eccessiva nelle loro mosse, e poi, la loro capacità di comprendere gli altri mi sembra molto limitata». Quando raccordo definitivo sarà raggiunto e ad Arafat verranno conferiti altri territori, che idea ha del destino dei coloni? Diventeranno una mina vagante? «No: semplicemente, così come ci sono arabi che vivono in uno Stato non arabo, esisteranno anche israeliani che vivono sotto un potere non israeliano. Avranno tuttavia passaporti israeliani, per la maggior parte dei casi. In definitiva, saranno loro a scegliere. Se vogliono resteranno dove sono, altrimenti faranno le valigie». Lo stesso vale per la gente del Golan? «Là è diverso. Senza anticipare troppo soluzioni ancora incerte, mi pare possa far fede l'accordo con l'Egitto sul Sinai (da cui i coloni fu¬ rono sgomberati n.d.r.k il processo di pace rischia di essere messo in crisi dal rifiuto assoluto di Barak di dividere Gerusalemme? «Gerusalemme non sarà divisa. E' impensabile che esistano due capitali in una sola città. Io stesso sono contro. Gerusalemme deve restare unita, ma possiamo andare alla ricerca delle più svariate soluzioni, ed è quello che faremo». Non mi pare che i palestinesi siano disponibili a molte opzioni diverse! «In una trattativa, a volte si esce soddisfatti, a volte no. Non si esce comunque mai vincitori. E qui noi non possiamo soddisfare i palestinesi, come in altre cose loro non potranno soddisfare noi». Fin dai tempi di Netanyahu lei non è mai stato alieno ad un governo di coalizione. Che ne direbbe oggi, dopo che i religiosi sono stati così aggressivi verso Barak, proprio in campagna elettorale? «Io punto tutto sul programma: meglio costruire una coalizione intemo na un programma, che distruggere un programma per compiacere una coalizione. Dobbiamo semplicemente mettere in piedi un governo che possa lavorare, chi ci sta ci sta e chi non vuole non vuole. La pace è il punto centrale, e io desidero il più grande sostegno possibile, senza che questo tuttavia sacrifichi la pace». Lei paria come se fosse in Ita¬ lia, o in Francia, e gli accordi fossero sempre possibili, ma qui le divisioni sono tenibili, religiosi contro laici, ashkenaziti contro sefarditi, pacifisti contro guerrafondai... «Queste sono tutte un po' delle leggende! In realtà, siamo semplicemente in un Paese multietnico e multiculturale che vive in democrazia. La democrazia non è un lieto simposio su una sola idea, o un incontro fra simili. La democrazia permette di coabitare nel rispetto e di prendere le decisioni necessarie a seconda di quello che scelga la maggioranza, sapendo che non si deve mai mancare di rispetto a nessuno. E quando siamo in tanti, è ovvio che ci siano degli scontri. Tutti sanno quanto è diffìcile la democrazia. Ma resta chiaro tuttavia che ci sono decisioni che non possono essere prese a maggioranza: si può essere religiosi quanto si vuole, prediligere la cultura che si ama di più, ma mai le scuole private potranno prevalere, perché l'educazione è una scelta pubblica; e così anche gli ospedali, o l'esercito... La religione e qualsiasi altra scelta privata devono essere compiute nella massima libertà personale, e non sono oggetti di un voto di maggioranza...». Insomma, lei non accetta la visione di Israele come un Paese particolarmente segmentato... «Niente affatto: la verità è che abbiamo un sistema elettorale asso¬ lutamente pazzesco, che fa di ogni divisione, ma che dico, di ogni sfumatura un partito politico, un gruppo di pressione. E' paradossale: il sistema dell'elezione diretta del primo ministro, da noi unito al sistema proporzionale, fa sì che puoi votare per un premier da una parte, e poi organizzargli subito contro il tuo minuscolo partitino, e farlo divenire un pesante gruppo di pressione alla Knesset». Farà parte del prossimo governo? E in che ruolo? «Sì, penso che ne farò parte per impegnarmi nel mio solito mestiere: la pace. E penso, senza false modestie e senza però mettermi inutilmente da parte, che quando si viene alla pace o al negoziato, se non altro per la mia esperienza sono fra le persone meglio attrezzate. Quanto al ruolo specifico, vedremo». Cosa ha imparato da questi ultimi incredibili risultati elettorali sul popolo d'Israele, che ancora non sapesse? «Alcuni Paesi sono famosi per il bel paesaggio, altri hanno miniere d'oro, altri grandi architetture. A noi è toccato il primato del più incredibile dramma. Questo è il Paese più drammatico del mondo. E il popolo israeliano ne è l'attore. E' la specialità della casa. Ed è bello, o almeno a me piace. Ritengo la noia il peggior male dopo la morte, e in Israele la noia è del tutto sconosciuta. Dunque mi piace tanto questo Paese, e questa gente». «Bisogna ripartire dagli accordi di Wye Plantation e rispettarli» «C'è un punto su cui non cederemo mai E' l'indivisibilità di Gerusalemme» l premio Nobel per la Pace Shimon Peres rientra nel governo