A Piana degli Albanesi altri «fratelli profughi»

A Piana degli Albanesi altri «fratelli profughi» Il NUOVO ESODO DOPO 500 ANN! A Piana degli Albanesi altri «fratelli profughi» reporage. Francesca La Licata y N cartello bianco avverte il viaggiatore che è cominciatoli territorio della più importante comunità albanese, delle sei presenti in Sicilia. Bara e Arbereshevet, Piana degli Albanesi, appunto. Qualche metro più avanti il benvenuto: Mire se na erdhet. Ancora qualche centinaio di passi e ci si può imbattere nella via Tirana. E' forte il desiderio di mantenere l'identità, in questa gente che da cinque secoli continua a parlare la propria lingua, usa l'italiano con gli «stranieri», fossero anche i palermitani distanti meno di trenta chilometri, e si riconosce nel rito ortodosso. Certo, anche loro non sono stati trattati benissimo dalla burocrazia del potere, che ha sempre negato - per esempio -la scuola in lingua albanese. Se sono riusciti a «conservarsi», ciò si deve all'ostinazione con cui, negli anni, sono andati avanti rimanendo compatti all'interno del gruppo, evitando accuratamente la rotta di collisione con le istituzioni presenti nel territorio. Che sono sostanzialmente tre: la Chiesa, lo Stato italiano e la mafia. Con tutti e tre gli albanesi di Piana hanno trovato il modo di convivere, differenziandosi e rimanendo originali. Hanno ignorato l'arroganza dei boss inducendoli a prendere contatti solo con singoli personaggi, senza legittimazioni di massa; mantengono cordiali rapporti con Santa Romana Chiesa e con lo Stato italiano. Senza ricevere granché da quest'ultimo. Neppure quella apertura verso esigenze di autonomia culturale che era lecito aspettarsi da una sinistra che a Piana dogli Albanesi amministra da sempre. Oggi che l'Albania è al centro dell'attenzione per la tragica occasione della guerra nei Balcani, viene da chiedersi - ed è questo il motivo del nostro viaggio - se gli Arbereshevet di Sicilia avvertano il richiamo dei «fratelli» fino a ieri visti soltanto in tv, ma ora presenti pur nella scomoda veste di profughi. L'impressione che si ricava, passeggiando e curiosando tra i gruppi fermi nei bar dai nomi difficili, come Kalinikte (Buonanotte) o Skanderbeg (dal nome dell'eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Skanderbeg), è un certo desiderio di patria, una propensione alla solidarietà, una ricerca delle comuni radici, ma anche Una comunità fiera ma integrata, ora solidale coi kosovari una sorta di disillusione per certe esperienze recenti. Piana degli Albanesi fu tra le prime comunità siciliane ad offrire ricovero ai fratelli albanesi sbarcati sulla scia della fine del regime di Enver Hoxha. Dice Turi, medico: «Andavamo a Tirana anche prima che esplodesse il sistema. Tornavamo a raccontare che l'Albania era una grande Piana, che i fratelli mangiavano lo stesso nostro formaggio, il kashikaval, che le ragazze erano belle come le nostre». Arrivarono in duecento, a Piana. Erano venuti in Italia nel 1994, su quelle barche della disperazione a malapena attraccate a Brindisi e Bari. Si ricongiungeva simbolicaniente il popolo della diaspora. Cinquecento anni prima, nel 1488, erano giunti sulla spinta della persecuzione ottomana. Erano talmente intimoriti che scartarono le coste. Andarono dentro, perseguitati dall'idea che i turchi li inseguissero. Scelsero una terra che ricordasse la patria loro. Le montagne di Piana, arse e profumate, le pietraie miracolo¬ , apresenzaeume,apanura protetta|e invisibile dall'esterno, erano ciò che cercavano. Ancora oggi le contrade di quelle campagne rievocano nomi antichi: Sheshi, Argomasit, Dingugh, il fiume Skembe, stesso nome del più grande fiume del Sud dell'Albania. Furono ospitati, i duecento. Chi meglio degli Arbereshevet di Piana poteva comprendere il dolore del «popolo in fuga»? Oggi il bilancio non è roseo. Ne sa qualcosa padre Gabriele del Convento di Sklizza che aveva entusiasticamente offerto i locali come ricovero. Non è stata un'esperienza esaltante. Per rimettere in sesto il convento c'è voluto tempo e lavoro. Molti dei duecento sono scomparsi nel territorio. Non se ne sa nulla. Gli altri, tutti squipetare, vivono male. E non perché venga loro negata l'integrazione. Hanno scelto 1 assistenzialismo, e spesso li vedi attendere il nulla nei pressi del bar Skanderbeg. E oggi? Come viene vissuta la tragedia del Kosovo? La prima osservazione che viene fatta è che i profughi giunti a Conùso sono contadini del Nord, gente dura, abituata al lavoro, dignitósa e fiera, In sostanza, archiviando la vecchia esperienza, gli albanesi di Piana si schierano coi fratelli. Il professor Pietro Manali è il direttore della Biblioteca comunale (ventimila volumi) intitolata a «Giuseppe Schirò». La difesa dell'identità è la sua religione. «Mi chiedo - dice - come si possa vivere in un mondo omologato. Che senso ha l'europeismo, l'internazionalismo, se non si riesce a creare una società unica ma diversa nelle sue componenti». Per questo ha iniziato anche una attività di «piccola editoria». L'obiettivo ò quello di arrivare alla pubblicazione di una «storia completa e documentata di Piana dogli Albanesi». Si sta facendo qualcosa per i fratelli kosovari? u Comune ha istituito un conto corrente che in pochi giorni ha raccolto 150 milioni. L'amministrazione ha cercato e trovato raccordo con la Caritas. Piana sembra essere il centro del coordinamento dei Comuni di origine albanese. Le suore di Santa Macinila, Basiliane, raccolgono cibo, medicine e vestiario da inviare alle consorelle che stanno nei campi di Albania. Dodici camion sono già partiti dal Centro Caritas di Palermo. Nella chiesa di San Demetrio, ortodossa come tutti i luoghi di culto di Piana (tranne San Vito che è la sola cattolica é rappresenta il Srezzo» pagato a Santa Romana tiesa per la convivenza pacifica), c'è Papas Jani, un prete giovane che si occupa degli aiuti ai kosovari, «La gente ha risposto puntualizza - e cominciano ad arrivare le richieste di adozione a distanza. Abbiamo fatto i prestampati, vedremo cosa accade. Piana ha dato la disponibilità per accogliere 25 profughi». Certo, non è un gran numero e forse gioca molto l'esperienza trascorsa. Altri 25, comunque, potranno essere ospitati in un ex casello ferroviario di Santa Cristina Gela, una comunità - anch'essa albanese - attaccata a Piana. «Siamo in difficoltà economiche - dice il sindaco, Giusepe Cangelosi - e i nostri impiegati non prendono neppure lo stipendio. Di più non possiamo fare». Il «sentimento albanese», comunque, sembra essere intatto. Nessuno qui cerca giustificazioni per il serbo Milosevic. Neppure Papas Stefano Plescia, che ha preso carta e penna per scrìvere a monsignor Ersilio Tonini, contestandogli una «errata visione della Grande Albania». «Monsignor Tonini scrive Papas Stefano - deve aver paura del fanatismo ortodosso dei serbi e dei greci che! continuano a chiamare il Santo Padre col titolo di Belzebù! Non deve temere una Grande Albania». Una posizione più mitigata, invece, è stata espressa dal vescovo, Sotir Ferrara, che - seppure nato e cresciuto a Piana • ha dichiarato di provare un sentimento diviso: il sangue lo porta verso i kosovari musulmani, la fedeltà al rito verso i serbi ortodossi. Senza schermi protettivi, infine, la voce laica del poeta. Giuseppe Schirò Di Maggio, personalità molto nota anche a Pristina, ha scrìtto: «11 Cattivo Pastore ha recintato l'Ovile/ di filo spinato e 11 ha rinchiuso/ le greggi non sue/ per la prossima festa/. Le vittime pronte. Gli dei/ ne berranno il sangue/mangeranno l'oblazione delle carni/. Temo che l'Europa/ al fumo delle vittime/ associ l'idea che lì si faccia/ picnic di carni arrostò». Questi versi il poeta li scriveva molto prima della guerra. Un'immagine del centro di Piana degli Albanesi con degli abitanti che indossano I costumi tradizionali