I tedeschi: è ancore presto

I tedeschi: è ancore presto I tedeschi: è ancore presto «Prima lasciamo che lavorino i mediatori internazionali» Maurizio Mulinaci ROMA Il timore di veder venire alla luco un documento italo-tedesco sul Kosovo ha turbato i sonni di un certo numero di diplomatici alleati e i titoli dei giornali che davano ieri quasi per certo l'accordo sul «Piano D'Alema» hanno rovinato la colazione in almeno due ambasciate della capitale. Così, quando a Bari il presidente del Consiglio e il cancelliere smentivano l'ipotesi del documento in molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Sebbene il portavoce di Palazzo Chigi spieghi ii giallo del documento annunciato e poi sparito come un «equivoco» di cui si assume generosamente la responsabilità, la ricostruzione che emerge dagli ambienti diplomatici è più articolata. La vicenda che ha fatto tremare i polsi a non pochi alleati nasce alla line della scorsa settimana, quando gli sherpa italiani sondano i tedeschi sull'ipotesi del documento, e termina a notte tarda di lunedì, dopo gli ultimi vani tentativi. Per comprendere a fondo i motivi del cortese diniego tedesco - come dei timori serpeggiati negli ambienti diplomatici - bisogna risalire all'origine del «Piano D'Alema». L'idea di offrire una tregua a Belgrado dopo l'approvazione di una risoluzione Onu (grazie all'assenso di Russia e Cina) era stata evocata in più d'una consultazione congiunta fra i Paesi occidentali del Gruppo di Contatto (Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia). Così un diplomatico alleato descrive la probabile scena: «A volte capita, uno dei partecipanti lancia un'idea e gli altri, pur ascoltando, non rispondono: chi ha parlato è convinto di aver avuto l'assenso ma non è cosi». Il fatto che all'interno di uno dei fori del Gruppo di Contatto si fosse informalmente parlato dell'ipotesi di una tregua - con tanto di approfondimento a seguire sulla durata, 48 o 72 ore - non significava che l'accordo fosse raggiunto ma che «avrebbe potuto maturare una soluzione in quel senso - si fa presente in ambienti diplomatici - se il negoziato con Belgrado avesse guadagnato terreno». Le feluche lavorano così: si preparano le ipotesi e poi si dà seguito a quelle avvalorate dal maturare di fatti concreti. Il vistoso annuncio del «Piano D'Alema» nel fine settimana ha cosi colto di sorpresa: non per i suoi contenuti ma per la decisione di rendere pubblico, a nome del governo di un singolo Paese, quello di cui si stava discutendo in camera caritatis. Aveva ragione il ministro degli Esteri, Lamberto Dini, nel dire che «molti alleati condividono» il pensiero italiano: non condividevano invece la decisione di parlarne in pubblico, soprattutto alla vigilia dell'arrivo a Belgrado del mediatore russo, Victor Cermonyrdin, affiancato dal premier finlandese Manti Ahtisaari, nel primo vero tentativo di convincere Milosevic ad accettare il piano del G-8. «Siamo in una fase in cui sul palcoscenico ci sono i mediatori intemazionali, l'Orni, il G-8, il Gruppo di Contatto e quindi i governi nazionali non si espongono» sottolineano a Bruxelles. Con tali premesse il tentativo di far firmare a Schroeder un documento bilaterale non poteva che essere vano, anche se giustificato dal tentativo di rispondere alle pressioni interne alla maggioranza di governo. La Germania come poteva sposare un piano «solo» bilaterale con l'Italia senza delegittimare le iniziative intraprese in qualità di presidente di turno super-partes dell'Unione Europea, del G-8 e del Gruppo di Contatto? Tanto più che è ancora fresco per Schroeder il ricordo di quando, subito dopo l'inizio della guerra, presentò un «piano tedesco» che dovette ritirare nel giro di poche ore dopo le dure reazioni di Washington. Le feluche tedesche, nella lunga notte di Bari, hanno però preferito respingere cortesemente l'invito ad aderire al «Piano D'Alema» per questioni di merito - l'invio delle truppe di terra non è permesso dalla Costituzione di Bonn, se la tregua verrà prima o dopo la risoluzione dell'Onu dipenderà dall'andamento dei negoziati - che salvano il principio detta «piena intesa» sulla necessità di una «soluzione politica».