Un Defoe brechtiano senza atmosfera e la scherzosità leggera di Barberini

Un Defoe brechtiano senza atmosfera e la scherzosità leggera di Barberini TEATRO & TEATRO Un Defoe brechtiano senza atmosfera e la scherzosità leggera di Barberini DAL 1993, ossia da quando si diplomò all'Accademia, Manuela Mandracchia, che avrà trent'anni nel Duemila, si sente definire l'attrice più promettente della sua generazione, e ripetere che da lei si aspettano grandi cose, ma finora le è toccata solo - in spettacoli importanti qualche parte secondaria con Ronconi, più la gustosa caratterizzazione di un soprano in crisi in un testo di Thomas Bernhard. La sua presenza pivotale in «Moli Flanders», spettacolo scritto e diretto da Alessandro Fabrizi sulla famosa avventuriera di Daniel Defoe, è quindi un valido argomento per visitare il Flaiano di Roma, dove l'iniziativa rimarrà fino al 30. Sei interpreti ciascuno dei quali si cala in più parti illustrano la vicenda con procedimenti brechtiani, ossia entrando e uscendo dal personaggio, mentre la protagonista si racconta in prima persona, da quando nasce nel carcere di Newgate a quando ci ritorna alle soglie della vecchiaia; nel frattempo si è sposata parecchie volte (una con un proprio fratello, ignorando che la madre, abbandonatala, aveva fatto I fortuna in Virginia), ha messo al I mondo numerosi figli affidandoli Masolìno d'Amico ad altri, si è impossessata di modesti patrimoni e li ha persi con mariti lestofanti; da ultimo si è specializzata nel furto con destrazza. Lo sfondo dovrebb'essere una Londra hogarthiana brulicante di ribaldi e spregiudicata in fatto di sesso, ma per descriverla non sono disponibili scene né costumi, e ci si arrangia con qualche baule, qualche farcito, e con della biancheria bianca non troppo pulita; le quattro donne in particolare sono in camiciola e calze al ginocchio. C'è, anche, qualche canzone accompagnata al piano (musiche di Marco Schiavoni) in più stili, da Haendel al tiptap: poco per creare un'atmosfera, né la sintetica rapidità con cui si susseguono gli episodi tutti uguali, senza sviluppo di caratteri, è fatta per avvincere. I 60'+40', insomma, appaiono eccessivi. Quanto alla Mandracchia, stavolta la vediamo nelle condizioni peggiori, non aiutata dal testo, non dalla tenuta (pettinatura e vest arci la sembrano studiate da ima sua nemica personale), non dalla regìa, che per renderla sexy e ironica la incoraggia, lei che ha un viso inconsueto e misterioso quando è fermo, a una incongrua ginnastica facciale con esposizione di centinaia di denti. Di molto positivo ella mostra dunque quasi soltanto la voce, di timbro attraente e di ragguardevole duttilità, precisa, agile e all'occorrenza veloce nelle tirate. Il resto ci si augura di rivederlo in circostanze più favorevoli. Come lo sono, invece, quelle che si è procurato Urbano Barberini alla Cometa, dove fino al 30 ripropone mi suo buon successo dell'anno scorso, «Sulle spine», spiritoso monologo scritto e diretto da Daniele Falheri. A parità di semplicità qui il contomo è elegante, scenografia duttile, con pochi elementi, bene illuminata, e due partner muti. Sono sei o sette tirate in cui un certo Silio parla di sé rivolgendosi successivamente alla tomba della madre, al cadavere del padre, a un analista, al fratello (per telefono), ecc. Silio è un gay represso che odia la sua famiglia e che come capiremo sotto il suo cicalare capriccioso e egocentrico, la sta progressivamente sterminando. Ci sono gag spassose, vedi il fou ri re che sopraffa il severo analista, e Barbe rini riesce a mantenere scherzosità leggera per 70'. ZJ

Luoghi citati: Londra, Roma, Virginia