Lévy: «Debray, il suicidio d'un intellettuale»

Lévy: «Debray, il suicidio d'un intellettuale» Scandalizzando la Francia l'ex compagno del Che ha difeso i serbi e negato la pulizia etnica Lévy: «Debray, il suicidio d'un intellettuale» PARI Gì. «Lettera di un viaggiatore al Presidente della repubblica»: così Regia Debray, scrittore, filosofo, a suo tempo amico e compagno di Che Guevara e di Feltrinelli, ha intitolato il testo pubblicato da «Le Monde» giovedì. Scritta al termine d'un viaggio in Serbia e nel Kosovo, la lettera ha sollevato un'ondata d'indignazione. Milosevic, scrive Debray, non è un dittatore perché «è stato eletto a tre riprese» e «rispetta la costituzione». In Serbia «non ci sono prigionieri politici», e Milosevic stesso può essere criticato «al tavolo del bar». La Nato, di fatto, muove una guerra contro il popolo serbo, prova ne sia la distruzione di «trecento scuole» ed il lancio di bombe a frammentazione che «sotto forma di giocattoli», uccidono soprattutto bambini. A Pristina, capoluogo del Kosovo, vivono ancora «decine di migliaia di kosovari», e i soldati serbi «fanno la guardia alle panetterie albanesi)). Riferendo i racconti di due giornalisti, Aleksander Mitic della Franco Presse, e Paul Watson, «imboscatosi per restare» in Kosovo, Debray ha scritto che solo dopo l'inizio dei raid, e l'entrata in azione dei «cecchini» dell'Uck, i serbi hanno attuato «evacuazioni localizzate». I profughi, «in maggioranza familiari di combattenti» dell'Uck, erano «in numero assai limitato». Gli inviati di guerra di «Liberation» hanno però smantellato tutte le affermazioni di Debray. Nessuna scuola, stando alile autorità serbe, è stata colpita. Le bombe a grappolo non hanno forma di giocattoli, il S'ornalista Mitic è un ex soldato serbo che ha combattuto contro l'Uck. Watson non s'è «uniscalo», ma è l'unico giornalista occidentale ad essere stato autorizzato dai serbi a restare nella provincia. E la deportazione violenta di 900 mila kosovari è stata documentata da organismi intemazionali sulla base di migliaia di testimonianze concordanti. [f. sq.) Bernard-Henri Lévy REGIS Debray ha avuto, un tempo, coraggio e talento. Il senso del gesto e quello della frase. E' stato, all'epoca della sua amicizia con il Che, uno dei nostri ultimi veri avventurieri: uno degli ultimi, in ogni caso, a tentar di raccogliere la sfida della «grande via», quella che si gioca sul doppio registro di un'opera esigente e dell'azione. Con degli errori, senza dubbio. Con la sua parte d'incertezza, di smarrimento, come e per tutti. Ma brillante, nobile. Quegli anni di prigione, a Camiri, che erano il segno, checché se ne dica, d'un impegno pagato a caro prezzo. Un bellissimo esempio, insomma, di grande intellettuale all'antica: una miscela di pensiero, letteratura e politica. Già da qualche anno le cose si erano complicate. Degli appelli, un po' ridicoli, al ritorno dei grembiuli grigi nelle scuole, e delle alzate di testa nazionaliste che non gli assomigliavano. Un penoso testo contro Venezia. Degli anatemi da curato imbronciato contro il Maggio '68 e la sua eredità. In- somma: un aspetto da serial water che spara su tutto ciò che si muove nei paraggi dello spirito moderno, e divenuto, testo dopo testo, l'araldo d'un moto «nazional-rcpubblicano» che non smetteva di affermare i propri regressi. E, ora, il difensore della causa serba, che con stupore e tristezza vediamo fare a sua volta il viaggio a Belgrado, unendosi così alla pattuglia dei Besson, Handke MarieFrance Garaud. E ne dimentico altri, ben peggiori, per compassione. Sorvolo sulla piattezza dello stile (giustizia immanente della letteratura?). Sorvolo sullo strano modo di qualificare come «eva¬ cuazione all'israeliana» la deportazione, sullo sfondo dei massacri, d'un milione di kosovari. Sorvolo pure sul classico rovesciamento di ruoli tra la vittima e il carnefice, che permette di evocare i «cecchini» dell'Uck. Sorvolo, ancora, sul ritratto di Milosevic come despota illuminato, «eletto a tre riprese», di cui ci si assicura, senza ridere, che «rispetta la costituzione», che egli non ha né «prigionieri politici» né «partito unico», e che «io si può criticare senza nascondersi, seduti al tavolo dei bar»! Ciò che è grave, e su cui non si può sorvolare, è l'allucinante ingenuità di questo maestro mediati- co, esperto di sospetto e di pensiero critico, che sotto i nostri occhi inghiotte le più enormi fandonie della propaganda serba, con lo stesso appetito, fatte le debite proporzioni, di quei nostri antenati che negli Anni Trenta andavano in pellegrinaggio a Berlino o a Mosca. Perché, alla fine, cosa fa Régis Debray in questo strano «reportage»: cosa pretende d'insegnare poiché è di questo che si tratta - a Seli'altro «uomo da battaglia» a, ai suoi occhi, è il Presidente Chirac? In sostanza gli dice: da un lato avete le testimonianze di centinaia e centinaia di medici, volontari dei servizi umanitari, di¬ plomatici, giuristi, testimoni diversi, giornalisti; avete la stampa del mondo intero che accumula, da dieci anni, le prove di una repressione premeditata, di una pianificata deportazione di massa della popolazione kosovara da parte dell'esercito e delle forze paramilitari di Belgrado. Ebbene, tutti questi bravi signori vi riempiono la testa di frottole; queste montagne di documenti, queste inchieste, queste testimonianze pazientemente raccolte e confermate son da gettare alle ortiche; io, piccolo Régis, ho parlato con due osservatori che «non sono dei novellini»; ho visto un pugno di soldati serbi «montare la guardia davanti a una panetteria albanese»; ho incontrato «degli ufficiali serbi» che, una volta che mi avevano preso «brutalmente da parte», mi hanno fortunatamente «salvato dai guai»; ed ecco la mia conclusione: nessuna «traccia», in Kosovo, di «elimini contro l'umanità». Se 900 mila albanesi se ne sono andati, ciò è avvenuto «su ingiunzione dell'Uck», o «per paura dei bombardamenti», o perché sognavano «di emigrare in Svizzera, in Germania o altrove». Il terrore come mito... La purificazione etnica come volontà e rappresentazione degli stessi kosovari... Il grotte¬ sco, qui, se la batte con l'ignobile. Come tutti gli appassionati di letteratura e della sua storia, io mi sono spesso interrogato sull'enigma degli scrittori che, in questo o quel momento della vita, sono tentati dallo scegliere il peggio. Mi sono chiesto, ad esempio, quel ch'era potuto passare per la testa d'un Drieu La Rocheue nel momento in cui oltrepassò quella frontiera: come un anglomane può decidere di passare con gli anglofobi, l'amico di Beri e di Malraux considerare che la loro compagnia non vale quella di Doriot: come, alla fine di quale serie di rotture o, al contrario, d'impercettibili sciovolamenti, uno scrittore può prendere cioè le parti dei propri nemici e, dunque, della barbarie. Debray non è Drieu. Né Belgrado è Berlino. Ma in fondo... In un certo modo, ci siamo quasi. Quel che indovinavamo dai libri, oggi ci è dato viverlo nella realtà. Odio dei «democratici» e dell'Europa? Odio di se stesso? Passione d'accecarsi, di deludere? Suicidio, in diretta, d'un intellettuale. Peccato. Addio, Régis.