Il borghese alla corte dell'asceta rosso

Il borghese alla corte dell'asceta rosso Il duro inverno del '46: dopo il contrabbando in Valtellina, l'incontro con Enrico Berlinguer Il borghese alla corte dell'asceta rosso Enzo Betiiza I sette anni di maggiore intensità della guerra fredda coincisero col periodo più difficile della mia gioventù in Italia. La prima fase di quella ribollente glaciazione europea dopo la disfatta germanica, fase quasi ufficialmente annunciata dal discorso di Fulton del 1946, in cui Winston Churchill dava per la prima volta un nome al «sipario di ferro» calato dagli eserciti comunisti «da Stettino fino a Trieste», si chiuse con l'inattesa morte di Stalin nel 1953. Anche le mie peripezie di pittore improvvisamente congelato e di giovane sbandato dovevano chiudersi, nello stesso anno, con l'approdo salvifico e pressoché miracoloso alla redazione del settimanale milanese Epoca. Gli eventi che fecero da sfondo a quelle mie disavventure personali, che punteggiarono i miei vagabondaggi, che in qualche modo s'intersecarono ora da lontano ora da presso perfino ai miei smarrimenti politici e ideologici, erano tutti profondamente sgradevoli e minacciosi. Evocavano ibernazioni geologiche, età della pietra e del ferro, diluvi da fine del mondo e da giudizio universale. • V' Dopo l'Accademia la Valtellina All'interno di tale cornice catastrofica s'inanellava una lunga catena di fatti memorabili. La firma del trattato di pace tra i vincitori e l'Italia ormai repubblicana, la successiva espulsione prima in Francia poi in Italia dei ministri comunisti dalle formazioni governative dell'immediato dopoguerra, la contemporanea eliminazione all'Est dei ministri non comunisti che avevano creduto alle promesse e alle garanzie dei «fronti nazionali». Quindi il colpo di Stato a Praga, il fatidico 18 aprile italiano, l'incalzare della guerriglia comunista in Grecia, la creazione del Kominform, la scomunica di Tito, l'attentato a Togliatti. Il punto culminante, il momento catalizzatore di quest'accesa fase iniziale della guerra fredda, si avvera a Berlino a Eartire dal 1° luglio 1948, con il lecco imposto dai sovietici ai settori occidentali dell'ex capitale tedesca. La risposta americana sarà spettacolare e vincente: un continuo, ininterrotto ponte aereo assicurerà per mesi rifornimenti e alimenti ai berlinesi assediati, costringendo infine i russi a cedere e a ritirarsi dall'assedio. Spesso mi sono domandato fino a che punto i grandi avvenimenti, quelli che precipitando formano la storia, riescano a incidere sul destino non solo esteriore ma interiore dei singoli individui. Ci sono esistenze accanto alle quali la storia scivola di Lato, con un fruscio sordo e remoto, lasciandole pressoché intonse, olimpicamente atone nell'intimo. Semplificando si potrebbe dire che a sono individui graziati dalla storia, i quali muoiono immemori e sereni, non sfiorati da nulla, nel letto in cui sono nati Si tratta di esistenze su cui l'evento storico passa come un rapido vento sopra un campo di grano: simili a spighe esse si piegano un attimo sotto il vento, non si spezzano, si rialzano nella posizione di sempre appena la raffica è passata e scomparsa. Altre invece vengono brutalmente risucchiate dal vortice degli eventi, che le strappano dalle radici, le trascinano smembrate di qua e di là, esponendole al rischio della distruzione materiale oppure all'agguato di sorprendenti mutazioni interiori. La mia gioventù, investita prima dagli effetti della guerra e poi da quelli non meno nefasti del dopoguerra, doveva inserirsi in questa seconda e più vulnerabile categoria esistenziale. Venni sorpreso dalla fame e dalla mancanza di tetto in una terra d'esilio che, a parte la lingua e la cultura, mi era umanamente straniera e per diversi aspetti indecifrabile. Sarebbe troppo lungo raccontare tutto quello che mi accadde in quel periodo disastrato. Basterà dire che dai gessi e dai marmi dell'Accademia di Belle Arti romana mi ritrovai da un giorno all'altro catapultato all'estremo settentrione della penisola, fra le rocce e le montagne della Valtellina: lassù, per sopravvivere, dovetti improvvisarmi contrabbandiere di sigarette e di saccarina. La storica confraternita dei contrabbandieri valtellinesi, concentrata soprattutto a Tirano, a ridosso della Svizzera, era un piccolo mondo chiuso e antico, regolato da un suo codice d'onore e di lealtà, rispettato perfino dalle guardie di frontiera e di finanza sia elvetiche che italiane. Era sempre uno scandalo, che veniva bollato con sdegno morale dai giornali locali, se una guardia giovane e inesperta uccideva un contrabbandiere nel momento in cui attraversava clandestinamente il confine montagnoso tra la Confederazione e l'Italia. La f di stessa prefettura di Sondrio raccomandava ai finanzieri di chiudere un occhio su quei movimenti clandestini, considerati all'epoca quasi ordinari per una provincia notoriamente povera, con poche risorse d'autosostentamento, messa per di più a dura prova dalle azioni partigiane e dai rastrellamenti durante la guerra appena conclusa. Dei cinque o seimila abitanti, che allora contava Tirano, forse la metà era dedita o trasversalmente coin volta nel contrabbando, che presentava una struttura familiare con connotati arcaici, insieme dinastici e un po' matriarcali. Per gli acquisti dovevo rivolgermi e trattare per lo più con energiche montanare adulte, nelle cui mani si trovavano i poteri negoziali e decisionali della famiglia. I nuclei fìttamente imparentati fra loro, come capita nelle regioni di montagna, costituivano una sorta di capillare organizzazione comunitaria, semiclandestina, un poco xenofoba, d'impronta più ladina che latina. I suoi componenti erano naturalmente portati a vedere nella Svizzera il toro fulcro economico e nel franco svizzero l'appropriata moneta di riferimento e di scambio. Quello strano ambiente m'aveva accolto dapprima con una certa diffidenza. Poi, quasi rassicurati dal fatto che neppure io fossi un italiano a tutto tondo, m'avevano a poco a poco dischiuso i loro canali sotterranei, fornendomi persino a credito la merce che poi rivendevo a Milano e il cui prezzo originario saldavo, dopo qualche giorno, al mio rientro a Tirano. Esercitavo il piccolo contrabbando individuale usando il treno e uno speciale giubbotto, detto «di giubbotto dei salamini», che indossavo sotto la giacca. Quel curioso indumento, che poteva evocare un corsetto antiproiettile, era tutto scannellato sul davanti, sul dorso e sui fianchi da una dozzina di lunghi imbuti in pezza che, riempiti di scatole di sigarette o di saccarina, assumevano per l'appunto la forma di tanti salami paralleli: un sotterfugio comodo e sicuro per sottrarsi alle occhiate indiscrete. La fiducia accordatami dai valtellinesi, insieme con i «salamini» e l'apertura di credito, mi consentirono di superare con un magro vitto e un gelido alloggio il duro inverno del 1946. Nel frattempo avevo stretto una forte amicizia con un giovane ammalato di tubercolosi e ricoverato a Sondalo. L'incontro si sarebbe rivelato decisivo per le mie prossime scelte di vita. Nei momenti di pausa, quando non percorrevo col treno il cupo paesaggio manzoniano di montagne nebbiose e d'acque comasche, salivo con una corriera fino al sanatorio dell'amico. L'aria d'alUtudine tersa e corroborante, il cibo robusto, le bevande intense ci predisponevano alle confidenze intime e al volo fra i massimi sistemi. Proveniente da una solida famiglia piemontese, laureando in ingegneria, lettore colto e accanito, il giovane prima di contrarre la tisi aveva fatto il partigiano nei dintorni di Bormio. Aveva militato nelle formazioni comuniste ed era uscito dalla macchia ideologicamente frustrato e fisicamente leso nei polmoni. Più vecchio di me, sapeva anche molte più cose di me. Si dichiarava comunista insoddisfatto, eretico, antistalinista: insomma un trockista. Un giorno, sulla fine di uno dei nostri pranzi eccitanti e ciarlieri, mi porse un paio di libri definendoli «quasi autobiografici» e incitandomi a leggerli attentamente. Uno, La montagna incantata di Mann, aveva a che fare con la sua malattia e la degenza in sanatorio; l'altro, Ija storia della ri minzione russa di Trockij, aveva a che vedere con la sua esperienza di comunista combattente e la sua eresia di comunista deluso. I libri, che erano tre, dato che la storia raccontata da Trockij comprendeva due volumi, produssero su di me un effetto assai profondo. Già da un pezzo qualcosa di strano, di bruciante, come una materia infiammabile ricoperta da ceneri e detriti, andava rivoltandosi nel mio cervello e nel mio animo. Il mondo postbellico mi dava nausea e disgusto. La caccia al cibo quotidiano mi esasperava e umiliava. La forzata rinuncia al sogno (Iella pittura mi riempiva di amarezza e di collera. La lettura quasi simultanea dei libri prestatimi sembrava congiungerli stranamente, ancorché diversissimi, nel mio stato (l'animo inquieto e ingordo di verità dure. Nell'ondivago protagonista della Montagna incantata ritrovavo il mio stesso io borghese alla deriva e alla ricerca avventurosa e polivalente dell'assoluto. Nei numerosissimi protagonisti della rivoluzione narrata con impeto da Trockij scorgevo invece una via d'uscita dalla deriva borghese, un miraggio di rigenerazione, la spinta all'approdo in un mondo futuro rinnovato e disinfestato dalla violenza. Quando, restituendogli i libri, dissi all'amico del turbamento che avevano provocato in me, lui mi ascoltò e infine mi fece una proposta del tutto inattesa: «TU, che hai tanti stimoli ideali e non possiedi più nulla di materiale, potresti diventare un ottimo comunista. Perché non facciamo una prova? lo conosco bene il segretario della federazione comunista di Sondrio, abbiamo fatto i partigiani insieme, potrei scrivergli una lettera raccomandandoti alle sue cure». Al che, pur già consentendo, obiettai: «Ma come la mettiamo con Trockij che adesso ha contagiato anche me?». Mi rispose col distacco un po' cinico di un navigato leninista: «Per intanto potresti entrare nel partito comunista che c'è. Il trockismo, che una volta in Italia aveva un Bordiga, oggi non ha più nessuno e nessuna organizzazione seria. Inutile rincorrere le fate morgane dell'impossibile rivoluzione permanente. Il momento non è ancora maturo. Se accetterai il mio suggerimento, dovrai recitare nelle sedute di partito Gramsci e Lenin e leggerti a casa, fra quattro mura, il nostro Trockij». Fu così che, presentato dalla lettera di un trockista convinto ma articolato, bussai alla porta della sede comunista di Sondrio. Ne incontrai il segretario e, dopo un colloquio assai sbrigativo, venni quasi immediatamente arruolato come funzionario e redattore del settimanale della federazione locale intitolato L'Adda. Feci rapidamente un buon tirocinio nel nuovo ambiente. Affiancato al direttore del giornale, un vecchio e stanco rivoluzionario valtellinese che si chiamava Chiarelli, reduce delle brigate internazionali di Spagna, parte¬ cipai con impegno alla vita del partito, passando le notti in tipografia e andando di giorno per riunioni di cellula e comizi in pubblico. Quell'improvvisa mutazione da esule borghese a missionario rosso, da pittore mancato a funzionario comunista, da contrabbandiere a bolscevico, era stata alquanto sorprendente e paradossale ai miei slessi occhi. Un giorno, a titolo di premio per il lavoro svolto, venni portato in macchina dai compagni alla sede milanese del comitato regionale lombardo. Vi si teneva una confe renza importante, che concerneva anche le nostre attività provinciali, presieduta dal giovanissimo Enrico Berlinguer. «Un dirigente nato, un vero bolscevico», sussurravano con rispettosa ammirazione i dirigenti minori. «Iscritto da sempre al comitato centrale», commentava il caustico Gian Carlo Pajetta che, insieme con Giuseppe Alberganti, ricopriva un ruolo di punta nel comitato lombardo. «Nellaprimavera del '47 aveva 25 anni, ma i gesti di un funzionario anziano, con un monacale spirito di devozione all'apparato» «Quella precoce senescenza burocratica aveva in sé qualcosa irò, d'anomalo, di minaccioso e d'irreale nello stesso tempo» SA fi Gian Cario Pajetta nel '49 a un comizio partigiano. Nel disegno Enrico Berlinguer visto da Ettore Viola. In basso, Berlinguer nel dicembre del '45, a una riunione dell'organizzazione giovanile comunista «Fronte della Gioventù»