Quirinale, il rito dell'addio

Quirinale, il rito dell'addio Come se ne sono andati gli otto predecessori di Scalfaro: il più imbarazzato, l'abbandono di Leone Quirinale, il rito dell'addio Dal riserbo di Einaudi alla furia di Cossiga Filippo Ceccarelli Va oggi in scena l'uscita dal Colle e con la cerimonia dell'addio, non solo nel mondo del potere, ma della vita pubblica, si compie un classico rito di passaggio. Al Quirinale da ora c'è un «prima» e c'è un «poi». Il modo di andarsene è molto importante, condiziona il ricordo dei presidenti, talvolta ne trasfigura la memoria. Sette anni sono uno spazio di tempo interminabile. In un solo giorno, l'ultimo, è come se si concentrasse l'intera vicenda presidenziale; e il personaggio ormai sulla soglia del Cortile d'Onore del Quirinale appare un condensato di se stesso, più di ogni altra volta obbligato a riassumere la sua identità. E' anche un momento, se si vuole, malinconico c perfino romantico del potere. «Deserta era la piazza della reggia; davanti al portone una catena...»: così Vittorio Gorresio, nel giugno del 1946, gli ultimi giorni della monarchia. In fondo, il primo addio della Repubblica iti quello di un ro. E che addio. All'aeroporto di Ciampino il «Savoia Marchetti» non era ancora pronto. «Umberto questo è Paolo Monelli - pareva avere l'imbarazzo e la seccaggine del viaggiatore che ha già fatto tutti gli addii e aspet- ta con impazienza il segnale della partenza». Guardò il cielo, coperto. «In alto il tempo è migliore» cercò di rassicurarlo il generale Aimone Cat, e la frase - conclude Gorresio «suonò come una sentenza allegorica». Poi, nel corso di mezzo secolo, toccò a otto presidenti. DE NICOLA, LA FUGA. Ci fu allora chi contò le volte in cui il primo Capo dello Stato aveva minacciato le dimissioni: 28. Su questa base non fu candidato per la rielezione. Eppure, in qualche modo ci rimase male e comunque, al momento della possibile scelta, si diede a una «imperturbabile clandestinità - come la definisce Andreotti - e quindi partì subito dopo, molto irato, per il suo rifugio partenopeo». EINAUDI, L'UMILTÀ'. Anche a lui avrebbe fatto piacere una rielezione. Ma non si sforzò. L'ultima foto lo ritrae con il suo bastoncino e il cappello in mano nell'atto di abbandonare il Palazzo umile e silenzioso come un lavoratore che se ne torna a casa. Né Gronchi né altri del suo festante contorno ebbero il buon gusto di accompagnarlo per un tratto. La sera rammentò ai suoi le pagine di Saint Simon in morte di Luigi XIV per trarne edificanti riflessioni sulla sorte riservata ai potenti non più in grado di dispensare onori e benefici. GRONCHI, LA FRETTA Uscita triste, umiliata, ma soprattutto logisticamente precipitosa. A differenza di Einaudi, che aveva rispedito a casa per tempo la sua biblioteca, Gronchi aspettò l'ultimo minuto. Nella vana speranza che lo rivotassero. SEGNI, LA MALATTIA Firmò con la mano sinistra l'atto di dimissioni. Il presidente era quasi paralizzato. La Flaminia scura che lo riportava a casa uscì dal Quirinale nell'indifferenza. A fianco all'autista c'era un'infermiera. SARA6AT, LA SOLENNITÀ'. Com'è noto, amava molto i classici e gli atteggiamenti maestosi, ac¬ compagnandoli con citazioni pronunciate con voce baritonale. Al momento di tagliare la corda, la leggenda del Colle tramanda che borbottò quindi un verso delle Georgiche: "ci sono quelli cui è toccato in sorte di difendere le porte". «Io l'ho fatto per sette anni - aggiunse - adesso tocca al buon Leone». LEONE, LA VERGOGNA Addio in tv, con volto terreo. «Nel momento in cui mi accingo a firmare l'atto di dimissioni, sento il dovére di rivolgermi direttamente a voi, cittadini italiani». Dopo cena, con sotto il braccio II fattore umano di Graham Greene, Leone uscì dal Colle. Fuori, sotto un temporale furibondo, c'era solo un fotografo. In meno di un'ora raggiunse «Le Rughe», a Formello. PERTiNì, LE LACRIME. Anche a lui non sarebbe dispiaciuta una rielezione. Ma riuscì generosamente a fare il signore, soprattutto con chi sarebbe andato al suo posto. Con scelta irrituale si presentò con Cossiga, appena eletto, in un albergo di via Veneto, rubandogli la scena, e un po' camuffando anche una certa amarezza con il consueto dinamismo. A Palazzo piansero un po' tutti. Anticipò cortesemente le dimissioni - creando però un piccolo groviglio istituzionale perché il presidente del Senato era il suo successore. COSSIGA LA FURIA Anche lui, do¬ po aver minacciato diverse volte le dimissioni, non volle restare fino alla scadenza del mandato. Ne diede annuncio il 25 aprile '92 - in un drammatico messaggio tv di 45 minuti, seguito da 5 milioni di italiani. In tono calmo e quasi svagato si definì «un uomo solo» e disse: «Voglio inchiodare la classe politica alle sue responsabilità». Ebbe, o almeno mostrò un fremito dopo aver bevuto un bicchier d'acqua e verso la fine si commosse. Più tardi, con un giornalista amico, brindò con champagne. L'ultimo atto fu una picconata ai vertici militari. Nel salutare i collaboratori, se ne uscì: «Via quelle facce, non è la prova generale del mio funerale!». Saragat si allontanò dal Colle citando Virgilio M'addio di Pettini piangevano tutti Gronchi attese fino all'ultimo minuto una rielezione Da sinistra corazzieri a cavallo nel cortile del Quirinale, Francesco Cossiga In divisa militare e il bacio alla bandiera di Sandro Pertlni

Luoghi citati: Ciampino, Formello, Onore, Savoia