La vite è bella, anche il vino va a caccia dei suoi Oscar

La vite è bella, anche il vino va a caccia dei suoi Oscar A New York centododici produttori italiani guidati da Carlo Pettini trionfano nella patria del fast food La vite è bella, anche il vino va a caccia dei suoi Oscar Gabriele Romagnoli inviato a NEW YORK Come a un concorto di Boccili, a un film di Benigni o a una sfilata di Prada. L'ultimo tutto esaurito per il amadc in Italy» a New York lo fa il vino. Prosit. Alle quattro del pomeriggio, quando il sole è ancora alto, due sale del Puck Building, un rosso palazzo storico di Sono, sono già gremite: migliaia di bottiglie, centododici produttori, qualche decina di giornalisti, frotte di ristoratori, sommellier, rappresentanti, assaggiatori che fanno il loro mestiere: deglutiscono, decantano, sputano (ma con estremo rispetto) nell'apposita coppa argentea, prima di passare al successivo «campione». E' un trionfo, uno spettacolo, una sfida. 51 mOVO. Nell'impero del «fast food» hanno fatto breccia i signori dello «slow food». Nel 1986 Carlo Petrini e i suoi seguaci lanciarono il loro movimento inorriditi dallo sbarco di Me Donald's a Piazza di Spagna. Tredici anni più tardi approdano a Manhattan con i vini d'Italia, raccolgono iscrizioni in tutta America, imbarcano sulla loro anca gastronomica artigiani del formaggio dello Stato di New York, professori d'università del North Carolina, ristoratori persiani di Seattle. Il settimanale «Time» dedica al fenomeno una pagina e Carlo Petrini, che in privato si definisce «spaventato ogni volta che siede a tavola in America» concede clic «anche gli Stati Uniti hanno una tradizione culinaria: Tex-Mex e Cajun». Rivista sottomano, si aggira compiaciuto nei saloni stracolmi, passa dall'uno all'alt.) o dei produttori che la sua guida (giunta alla seconda edizione in inglese) ha insignito del m;-Mino riconoscimento («i tre bicchieri»), racconta storie di vitigni e viticoltori e si esprime con il linguaggio da poeta ermetico dei sommellier, degno dei testi dell'ultimo Battisti («ecco, si svela /il finale allappante/ dei termini»). IO SPETTACOLO. Intorno sciama, ebbra e festante, la folla venuta a conoscere la barbera di Gianfranco Alessandria o il cabernet sauvignon dell'azienda La Stoppa, a scoprire ledile facce di Serafini & Viadotto, che versano in pubblico il «rosso dell'Abbazia» e, in privato, il meno sacrale «Phigaia». E' con speranza che vedi passare gli stessi ristoratori di Manhattan che ti fanno pagare 10 dollari mezzo bicchiere di un dubbio barolo o ti presentano, nella terroristica lista, una bottiglia di brunello giovane per 90 dollari. Con loro, tutto un mondo di personaggi: il persiano Colmarvi, che fattura un milione di dollari l'anno di vino italiano nel ristorante «Assaggio» di Seattle («Very italian tasto», assicura il suo biglietto da visita) o l'importatore Dominio Nocerino, impegnato a selezionare nuovi prodotti da mettere sulle tavole di Long Island. Assaggiano, sputano (pardon! prego!), riassaggiano, in una giostra che si tramuterà in flussi di liquidità: dollaro contro dolcetto. LA SROA. Perché l'operazione riesca, occorre superare la barriera doganale della critica americana. Benigni e Boccili ce l'hanno fatta nonostante qualche stroncatura. Il vino cerca di riuscirci anche senza l'appoggio dell'autorevole «Wine Spectator», il «Wall Street Journal» degli enologi. La guida in inglese ai vini italiani del «Gambero Rosso» e «Slow Food» è il tentativo di farsi giustizia da sé. Emerge, tra la critica europea c quella statunitense, una divergenza che gli italiani non esitano a definire «filosofica». Parole loro: i nostrani sono più «umanistici», contro il «razionalismo matematico degli americani». In assenza del capo¬ scuola Robert Parker, la rappresentanza statunitense a Manhattan è affidata a un terzetto di signore capitanate da Florence Fabrìcant del «New York Times», severa assaggiatrice con scarpe da badessa, che segue la conferenza stampa senza prendere appunti, ma dondolando nel languore della sera un calice di rosso. Sosterrà poi la superiorità dei critici femminili, «dotati di un superiore equilibrio, comprovato dalla scienza». Curiosamente, Carlo Petrilli si dichiarerà d'accordo, mantenendo invece, e fieramente, le posizioni sul metro di giudizio: no al voto in centesimi, troppo arbitrario, sì ai tre bicchieri (o alle cinque stelle), meno soggetti a sbalzi, limature impercettibili, ma capaci di deterrninare l'acquisto di centinaia di casse e la spartizione di migliaia di dollari. «Ci sono valutazioni che vorremmo stabilire in modo dialettico con il pubblico», affermano gli italiani. Linguaggi della politica, della filosofia c dell'ermetismo. Profumo di gastro-economia. La vite è bella, direbbe Benigni. E gli americani ne bcrraimo i frutti. Come questi possano accompagnarsi alle fettuccine in salsa Alfredo, al «surf & turi» o ai gamberetti con riso e salsiccia (tradizione caino, dicono, assaggiati al «Planet Follywood» di Folly Baech, South Carolina), è un mistero ancora da svelare, che riposa, forse, nel «finale allappante dei taimini». Una folla di ristoratori e assaggiatori sedotta dalle bottiglie di barbera e cabernet «Superata la barriera della critica americana» Carlo Petrini e l'articolo che «Time» ha dedicato alla filosofìa del «mangiare lento» promossa dal presidente dell'Arcigola