«Fermate il ferro di questo mondo»
«Fermate il ferro di questo mondo» Il diario della fuga dagli orrori della guerra di un professore rifugiato a Comiso «Fermate il ferro di questo mondo» Questo testo - una sorta di piccolo diario della fuga dagli orrori della guerra e dell'arrivo a Comiso - è stato scritto dal prof. Jmer Berbati, Integrante di letteratura albanese in un liceo di Pristina, giunto nell'ex Base Nato col primo conungente di profughi dalla Macedonia. Berbati, che a Comiso è arnvato con la moglie, ha scritto due libri di poesie, il secondo sul tema della «pulizia etnica». Dice di aver seppellito I bori nel giardino di casa sua per sottrarli alle perquisizioni della polizia serba. Jmer Berbati ORA sono in Sicilia, ma la mia mente è rimasta accanto alla porta di casa, chiusa senza ripensamenti. La mia unica preoccupazione è il Kosovo, lasciato nelle mani dei barbari. Ho ancora negli occhi il lungo treno pieno di povera gente e i soldati, poliziotti, criminal* serbi. che ci deportavano. Visi neri, occhi pieni di odio. Penso e tremo ancora, fermate il ferro di questo mondo. Pioggia fredda, scroscio nei boschi, fango da calpestare, lacrime di bambini, rancore di anziani E i malati. I morti... i cadaveri... non si sa dove li mettessero. E di nuovo i visi terribili dei poliziotti macedoni. «Vattene, cerca aiuto dalla Nato, non da noi», mi ripetevano. Ricordo una donna stramazzare al suolo dopo le minacce. Dicono sia morta, chi può saperlo. Sono al sole, in Sicilia, e ripenso ai nostri fratelli albanesi in Macedonia, ai loro sacrifici per salvarci da quell'inferno. E ci sono riusciti Poi Stankovie, i soldati italiani, brava gente. Ci hanno dato sorrisi senza stanchezza, calore e generosità. Sono stati la nostra luce. Sui loro pullman siamo arrivati all'aeroporto di Scopje. Altri giovani italiani ci hanno accolti cól cuore: un sorriso, un pasto e tè, cioccolata e biscotti. Ci ba¬ stava guardarli per capire che potevamo fidarci, a loro infatti abbiamo consegnato le nostre vite. Li abbiamo visti giocare coi nastri bambini, sorridere con loro, accarezzarli come padri. O Dio che felicità, che squarcio di luce nel buio di questa nostra tragedia nazionale. Toma la fiducia, la certezza che saremo di nuovo uomini. Gli aerei lasciano la terra con rumore e noi, come uccelli con braccia di ferro, strappiamo il cielo. I soldati rassicurano i bambini. Sotto di noi un mare azzurro e piano. Un punto scuro naviga chissà per dove accendendo le luci a quell'alba. Che meraviglia. Gente in cielo, gente in mare. E che brutta la cacciata della gente in terra, perseguitata senza colpa. II rumore vince le orecchie, i motori corrono, il corpo avverte la discesa verso la terra sconosciuta. L'aereo sfiora la pista, il contatto è leggero, quasi non si avverte. La grande armata di pace, ci accoglie. Di nuovo una sorpresa, piacevole e insperata, il calore dei soldati. Non eravamo più abituati a tanta umanità. In Kosovo, quando ti toccava una uniforme ti colpiva il malessere. E, infine, la Base di Comiso, Peacetown l'hanno chiamata. Un nome pieno di speranza, un luogo che non incute timore. Di nuovo tute annate che ci accolgono come fossimo gentiluomini americani e non profughi di guerra. Un carosello di uniformi colorate, i volontari che si prendono cura di noi. Ci portano nella grande sala del teatro e ordinatamente ci assegnano l'alloggio. Mangiamo un pasto caldo, altri che tendopoli! Finalmente in una casa. Da più di un mese non toccavo un letto vero. Guardo mia moglie, ci guardiamo e per la prima volta sorridiamo insieme. C'è anche un bagno lindo e pulito. Andiamo a dormire tranquilli. Buonanotte. (Traduzione di Simon Stambollin)
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